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 2019  ottobre 26 Sabato calendario

Su "L’irriverente. Memorie di un cronista" di Vittorio Feltri (Rizzoli)

Dietro la maschera che si è costruito e che gli hanno cucito addosso (vedi le esilaranti caricature di Maurizio Crozza) c’è un Vittorio Feltri genuino, fedele ai maestri e alle amicizie, agli affetti più cari e soprattutto ai decenni di lavoro che hanno fatto di un cronista di provincia (la sua Bergamo Alta) uno dei protagonisti indiscussi del giornalismo italiano. Certo, oggi la carta stampata non gode di grande salute, ma tutti noi ricordiamo come veri e propri miracoli le performance di Vittorio Feltri alla direzione di giornali presi in stato preagonico e portati a tirature di tutto rispetto.

Dopo aver raccontato la sua vita ne Il borghese (Mondadori), oggi il giornalista che Marco Pannella aveva definito un Indro Montanelli «con un cilindro in meno» continua a raccontarsi. Lo fa in un volume molto gradevole, L’irriverente. Memorie di un cronista — in uscita il 29 ottobre per Mondadori (pagine 112, e 17) — da cui non riesci a distaccarti, che contiene quindici capitoli, quattordici dedicati agli umani e l’ultimo ai suoi gatti.

Naturalmente si parla molto di giornali e di giornalisti, ma anche di altre figure cruciali nella formazione di un ragazzo curioso del mondo e amante dell’eleganza. Tra i primi Giorgio Gaber, a 22 anni già cantautore affermato che dopo un concerto a Bergamo si sedette a una tavolata di ammiratori, tra cui il diciottenne Vittorio, per bere una birra in compagnia. Gaber indossava un blazer blu e dei mocassini. Uno stile sobrio che tanto piacque al suo interlocutore. I due si scambiarono il numero di telefono e quando Feltri approdò alla «Notte», il quotidiano del pomeriggio guidato da Nino Nutrizio, utilizzò quel numero per realizzare un’intervista che segnò l’inizio di una amicizia duratura. I due si incontravano spesso per parlare di politica, della vita, delle carriere. Una volta in trattoria il discorso andò sulla definizione di destra e sinistra. Feltri racconta che Gaber prese un foglio e cominciò ad annotare: «Fare il bagno è di destra, la doccia invece è di sinistra, fumare le Marlboro è di destra, le sigarette di contrabbando sono di sinistra. La fortuna non si sa se sia di destra, la sfiga sicuramente è di sinistra…». E via elencando. Da quella conversazione nacque uno dei brani più popolari del cantautore milanese, il cui ritratto apre questa galleria, quasi a voler sottolineare l’aridità e inconsistenza di certe gabbie nelle quali vogliamo costringere uomini e cose.

E a ben guardare nel pantheon di Feltri i posti d’onore sono riservati a personaggi scomodi come Giuseppe Prezzolini, che Palmiro Togliatti ebbe la gentilezza di definire «merce vecchia venduta su tutti i marciapiedi», in realtà un grande del Novecento che lascò l’Italia quando Benito Mussolini si consolidò al potere e non vi ritornò stabilmente mai più. Preferendo alloggiare dal 1968 in un appartamento non lussuoso a Lugano, lontano dai suoi connazionali che mai gli tolsero l’etichetta di fascista e che lo riscoprirono tardi, poco prima della morte avvenuta a cento anni nel luglio 1982.

Altro personaggio scomodo raccontato da Feltri è Enzo Tortora, il popolare giornalista e conduttore televisivo arrestato nel giugno 1983 con l’accusa di associazione camorristica e traffico di droga. Tortora fu la vittima di uno dei più clamorosi errori giudiziari della magistratura repubblicana. Ma fu doppiamente vittima grazie al coro accusatorio levato dai tanti giornalisti che sposarono subito le tesi accusatorie. Vittorio Feltri, e chi scrive ben lo ricorda, fu il primo a dissociarsi dalla canaia colpevolista e, spulciando nelle carte istruttorie che tutti avevano a disposizione ma che nessuno aveva letto, scoprì che il principale accusatore, il pentito Gianni Melluso, che aveva raccontato di aver conosciuto Tortora a Milano in piazzale Loreto (o forse in piazzale Lotto), all’epoca del supposto incontro era in galera. E così l’altro elemento d’accusa, il numero di telefono scoperto nella rubrica di Giovanni Pandico, in realtà non era quello di Tortora, ma di un’altra persona, forse un omonimo. Ci vollero anni per ristabilire la verità, e in quel periodo Enzo Tortora si ammalò di un irrimediabile tumore. Quegli articoli scritti da Feltri sono una medaglia che pochi possono vantare.

Naturalmente nelle pagine dell’Irriverente ci sono tanti giornalisti, e c’è tanto «Corriere della Sera», dove l’autore ha lavorato per circa tre lustri. Ci sono i direttori amati, come Gino Palumbo, «un mostro di bravura» che fu a capo del «Corriere d’Informazione» e della «Gazzetta dello Sport». C’è Piero Ostellino, che divenne direttore del «Corriere» quando Palumbo si ammalò di tumore e non potè accettare l’incarico. C’è Franco Di Bella, che portò il maggiore quotidiano di via Solferino a vendere un milione di copie ma inciampò nell’iscrizione alla P2. E c’è Alberto Cavallari, che detestava Feltri ed era da questi ricambiato. Una volta «l’irriverente» fece cambiare la gerenza e mettere al posto del direttore il nome di un noto whisky, Johnnie Walker. Per fortuna un amico tipografo lo salvò in extremis. Altra allusione alcolica Feltri la fece in una polemica con Gianni Brera, che accusò di «aver toccato il fondo della bottiglia» e ne divenne amico quando, incrociatolo in un ristorante, si vide recapitare al tavolo una bottiglia di grignolino, inviata dal maggiore dei giornalisti sportivi in modo che anche Feltri potesse «toccare il fondo …».

Nell’Irriverente ci sono pagine drammatiche come l’incontro in carcere con l’editore Angelo Rizzoli, e si raccontano episodi esilaranti, come quello del cronista di «Bergamo Oggi» Piero Baracchetti, che, richiesto di fare un pezzo per la prima pagina sullo scoop del giorno, la risoluzione del giallo sulla scomparsa di tre donne per mano di un impiegato di banca, si presentò dal giovane direttore con quindici righe striminzite. Feltri accartocciò quel foglio e vergò quindici cartelle.

Si è detto che la fortuna di Feltri direttore sia stata quella di aver drogato i giornali, con titoli a effetto e al limite della correttezza (alcuni memorabili come quello su De Mita: «Chiude la bicamerale, rimane l’attico»). In realtà la sua prima qualità è stata di essere un grande cronista, capace di capire e scrivere le notizie. E sgobbare dalla mattina alla sera.