La Lettura, 27 ottobre 2019
Una scuola su misura per aiutare tutti
«Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali». Per raccontare la scuola del futuro Luigi d’Alonzo va indietro nel tempo e cita don Milani. Più indietro ancora, Pietro Calamandrei che «nel 1956 – ricorda – scriveva che la scuola è più importante del Parlamento, della magistratura e della Corte costituzionale». D’Alonzo insegna Pedagogia speciale e dirige il Centro studi e ricerche sulla disabilità e marginalità (CeDisMa) della Cattolica di Milano: il 29 ottobre, a Milano, sarà tra i relatori di Ognuno è speciale, primo convegno nazionale di studio e formazione di Pearson Academy, organizzato in collaborazione con CeDisMa. Al centro dei lavori una parola chiave: inclusione, ossia l’idea che la scuola debba accogliere tutti, anche quegli studenti con «bisogni educativi speciali» che hanno diritto come gli altri a portare gli studi a compimento.
«Su questo fronte, dal punto di vista culturale la scuola italiana viaggia su posizioni molto avanzate», spiega Mila Valsecchi, vice president Sales & marketing Pearson Italia, casa editrice specializzata in education. Il riferimento è alla legge 170 del 2010 sui dsa, i «disturbi specifici dell’apprendimento», che riconosce a chi ha, per esempio, la dislessia o la disgrafia il diritto a un Piano didattico personalizzato e ad usare strumenti che lo aiutino ad apprendere. L’esempio più immediato per capire di cosa parliamo riguarda i dislessici, che hanno difficoltà a riconoscere i segni scritti: per loro leggere su uno schermo invece che su carta, con frasi che non si interrompono per andare a capo, poter ingrandire caratteri e interlinea, avere la versione audio di un libro di testo può fare la differenza. Ma i «bisogni educativi speciali» (bes) sono di vario tipo: nel tempo la definizione si è allargata, fotografando uno scenario sempre più complesso e arrivando a comprendere ragazzi non madrelingua o «chi vive in contesti sociali difficili o in situazioni di disagio in famiglia, anche temporanee, come una separazione; o chi ha problemi comportamentali o emotivi», ricorda Valsecchi.
La legge, soprattutto, ha ribaltato la prospettiva: non più studenti tutti uguali con gli stessi obiettivi da raggiungere seguendo un identico percorso ma ciascuno con capacità di apprendimento diverse e, dunque, strade diverse da percorrere per arrivare al traguardo. Una concezione che nasce da un’esigenza compensativa rivolta ai ragazzi con deficit di apprendimento ma che, oggi, viene incontro allo scenario allargato dei bisogni educativi speciali. E, guardando avanti, potrebbe evolversi in un’idea di «scuola su misura» da applicare a tutti gli studenti: per ciascuno, una via da percorrere che tenga conto di capacità e inclinazioni, le includa e le valorizzi.
«Oggi quasi l’80 per cento dei ragazzi ha bisogni educativi speciali», nota Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano e professore all’Università Milano-Bicocca. Per rispondere alle esigenze di un mondo cambiato, continua Lancini, il sistema scolastico deve adeguarsi alla nuova realtà: «Vita virtuale e reale si intrecciano continuamente, la società di internet genera narcisismo: tutto questo esige risposte complesse da parte della scuola, un’educazione all’uso consapevole del digitale. Spesso, invece, l’intervento sulla tecnologia si esaurisce nel limitare o meno l’uso del cellulare. Così come il dibattito sui voti: non serve tornare a bocciare, piuttosto ripensare il sistema di valutazione, spiegare ai ragazzi il perché di un giudizio, e prepararli a un mondo del lavoro completamente cambiato dove, magari, si viene assunti perché si hanno molti follower».
In uno scenario da «emergenza educativa» la scuola deve creare «una cultura competitiva» intorno a ragazzi sempre più fragili e non perdere autorevolezza, perché «se non lo fanno la scuola o la famiglia, i ragazzi guarderanno ai coetanei o agli youtuber», avverte Lancini. Il rischio, spiega, è soprattutto per gli adolescenti: «Oggi tendiamo ad adultizzare l’infanzia incoraggiando i bambini fin dalla materna ad esprimersi, a dire la loro, poi però arrivati all’adolescenza cambiamo impostazione, finendo con l’infantilizzare i ragazzi proponendo a tutti uno stesso modello da raggiungere». Risultato, studenti che, di fronte a una società competitiva, preferiscono ritirarsi: «Dispersione scolastica e 2,4 milioni di neet, che non studiano né lavorano». L’adeguamento necessario della scuola alla nuova realtà, per Lancini (anche lui tra i relatori al convegno milanese del 29 ottobre con Luca Raina, Maria Vittoria Alfieri, Pier Cesare Rivoltella, Orazio Giancola, Giovanni Maria Vecchio, Stefano Rossi, Barbara Poggio. In chiusura una conversazione con Marco Rossi-Doria), passa dall’apprendimento individualizzato, «che non significa tralasciare alcune materie a favore di altre, ma variare le discipline e far capire ai ragazzi a cosa serviranno, né tornare al 6 politico o cancellare gli obiettivi di apprendimento, ma adattare sistema di voti e metodi al reale».
Nella scuola che viviamo la «taglia unica» non funziona più: è anche l’opinione di Luigi d’Alonzo, tra l’altro curatore del volume Ognuno è speciale. Strategie per la didattica differenziata da novembre in libreria per Pearson Academy. L’allarme, per d’Alonzo, è il medesimo rilevato da Lancini: «In società come la nostra dove la famiglia, la Chiesa e altri tipi di associazioni non tengono più, la scuola è fondamentale (da qui il riferimento a Calamandrei, ndr), ma deve confrontarsi con ragazzi sempre più fragili, che alle spalle non hanno più valori condivisi, che arrivano da contesti sociali, culturali e anche linguistici diversi». Le soluzioni? «Rinnovamento didattico, inclusione delle diversità, lavoro in team dei docenti, uso intelligente delle tecnologie». E differenziazione: «Affrontare il lavoro didattico con modalità diverse a seconda degli alunni deve diventare una prospettiva, una consuetudine: diversificare il processo, il contenuto e il prodotto didattico in accordo con interessi e abilità dello studente». Per esempio? «Le tabelle di scelta funzionano molto: ciascuno studente sceglie il suo percorso di apprendimento. Ai bambini, per dire, viene data la possibilità di scegliere per quella settimana un certo numero di attività didattiche: autodeterminarsi aumenta di molto la motivazione e di conseguenza il risultato». Oppure le «stazioni»: ogni attività viene divisa in stazioni, ossia spazi di lavoro in classe in cui i ragazzi, a gruppi, fanno attività diverse.
Premessa necessaria, su cui tutti sono d’accordo, perché l’idea della scuola su misura prenda consistenza è la formazione dei docenti, perché se la legge e la teoria sono avanti, la scuola italiana è ancora indietro nella pratica. Come è ancora troppo ampio il divario generazionale tra docenti e discenti, soprattutto in tema di tecnologie digitali. Poi serve coordinamento tra i professori: «In Italia – conclude d’Alonzo – sono un diamante le due ore di programmazione settimanali che permettono ai docenti della scuola primaria di coordinarsi tra loro. Ma già quando si arriva alla secondaria di primo grado ogni professore si trova a dover fare da sé, con gravi danni per il risultato finale».