La Lettura, 27 ottobre 2019
I dipinti di Luca Carboni
Bologna è una regola. Nei dischi, nelle canzoni (ce n’è una del 2015 che porta proprio questo titolo). Anche nei quadri. I portici, quelle curve perfette che ritornano nelle figure femminili, metà bianche metà nere, metà bionde metà more «perché loro sì sono simbolo di inclusione». Bologna è un’immagine, come dice la mostra – una retrospettiva in quaranta opere – che Lucca Comics & Games dedica a Luca Carboni. Pittore, non solo cantautore. Sarà un debutto. «Sono emozionato, un po’ imbarazzato», dice il musicista che negli ultimi 35 anni ha inciso una ventina di dischi (12 di inediti) e si è esibito davanti a qualche milione di fan. Sorride: «Ma questo è diverso. È il mio diario intimo».
Autodidatta di talento. «Tutto è cominciato abbastanza tardi, quando dovetti affrontare la pubblicazione del mio primo album (…intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film, 1984). Improvvisamente mi resi conto di quanto fosse importante l’immagine. Io che fino a quel momento avevo in testa solo le canzoni iniziai a interessarmi alla parte grafica. Per il primo video, Ci stiamo sbagliando, feci lo storyboard di mio pugno. Da allora porto sempre con me, anche in tournée, un taccuino su cui disegnare e fissare alcune idee».
Percorso artistico alternativo di un musicista che sul palco esprime la sua musica; su carta – e su tavola, tela, cartone – il suo io più profondo. «Le mie visioni private», dice il cantautore cresciuto divorando Tex Willer, Zagor, Alan Ford, leggendo i fumetti di Andrea Pazienza e Bonvi «che frequentavo nella trattoria Da Vito con Lucio Dalla e Francesco Guccini», incantato dalle opere di Hugo Pratt (e infatti nel 2006 Carboni ha realizzato tre videoclip a cartone animato ispirati a Corto Maltese), fino ad arrivare a de Chirico e a un altro bolognese, Giorgio Morandi. Racconta: «Disegnavo sempre. In tour, a casa, in studio. La prima copertina in cui appare un mio lavoro è del 1989, con l’album Persone silenziose, sorta di collage fatto con i volti a margine dei miei appunti. Non li avevo mostrati a nessuno, ma il fotografo Luigi Ghirri li notò...». Poi nulla per dieci anni. «Fino a Carovana del 1998, in copertina dipinsi l’abbraccio tra un uomo e una donna incinta». È del 2004 un libro di disegni e piccole storie dal titolo Autoritratto (edizioni Pendragon di Bologna). E arriviamo al 2018 con il disco Sputnik: nella copertina Carboni riprende con ironia la grafica della propaganda sovietica degli anni Sessanta. «E a quel punto ho ricevuto l’invito da Lucca».
Una selezione di quaranta opere dalla fine degli anni Novanta a oggi sarà esposta a Palazzo Arnolfini fino al 3 novembre. La tecnica: «Tempera, acrilico, ultimamente anche spray». Lieve incrinatura della voce (e sì che canta, ma l’imbarazzo è evidente): «Come mi definirei, vediamo… Figurativo sicuramente. Direi un incrocio tra arte grafica e minimale. Forse. Faccio tutto a mano». In una cantina trasformata in laboratorio e falegnameria («mi diletto anche con i mobili»). A Bologna ovviamente. Quasi onnipresente nei quadri di Carboni. Come le stelle («sulla fronte perché abbiamo la luce»). Come le donne. «Quando le dipingo in serie sembrano le luci del portico di San Luca, altro simbolo della città». Bologna rossa – «uso molto questo colore» – con i suoi tetti e il suo passato politico (e infatti compaiono anche una falce e un martello nel quadro qui sotto a sinistra). Bologna abitata da figure femminili bellissime, spesso rappresentate con l’aureola: «Per me ogni donna è una dea», conferma Carboni citando la canzone Chiedo Scusa. «Mi piace l’idea di un’arte sacra che ritrae una santa mentre è dal parrucchiere». Giudizi: «Ogni volta che riguardo una mia opera, mi accorgo che cerco sempre di bilanciare gli opposti: la pesantezza e la leggerezza, il bianco e il nero, il sacro e il profano, l’ironia e la malinconia. Questo aspetto torna spesso nei quadri e nelle canzoni. Solo che su tela diventa tutto molto più simbolico, esplicito, diretto. Probabilmente anche più pop».
Mentre parla con «la Lettura» Luca Carboni è al lavoro. Sui quadri. Ritocca un’opera. La prepara per la mostra. «Non dipingo con continuità. Però quando penso al disco nuovo, prima di scriverlo, mi prendo un periodo – un mese, a volte anche due – da destinare alla pittura. È terapeutico, libera i pensieri. Mi fa esprimere cose che a parole non riesco a dire». Nemmeno con la musica? «Sono linguaggi diversi, con l’arte esterno emozioni altre rispetto alle canzoni, questa cosa mi piace e mi stupisce sempre. Come l’idea di comunicare il silenzio».
I dipinti come le canzoni. Tutti figli, tutti amati. «Dopo tanti anni, anche per i quadri è difficile scegliere quello che preferisco perché sono tasselli di una storia lunga e per me magica, ogni immagine mi dice chi sono e chi ero. Penso sia l’insieme, più che una singola opera, a rappresentarci. È il percorso, fatto di cose precise e probabilmente anche di quelle imprecise. E a Lucca questo percorso sarà visibile per la prima volta tutto insieme. Anche per me».