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 2019  ottobre 27 Domenica calendario

Intervista a Josephine Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti

Fin qui Josephine Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti, era la ragazza siciliana (classe 1991), geniale, spudorata, autrice di Romanzo esplicito (Feltrinelli Comics, Premio Micheluzzi, Premio miglior esordiente Lucca Comics, ex aequo con Zuzu).
Fin qui era la ragazza che siamo state tutte, colei che raccontava meglio di chiunque altro l’amore finito e mai dimenticato, che parlava di solitudine, ricerca a vuoto («Vedo i ragazzi della mia età che pensano all’amore. Mentre io scopo nelle macchine e nei campetti abbandonati»), speranza («Ma io in fondo lo so che là fuori c’è qualcuno per me, che non vuole solo scopare ma anche fare l’amore»), voglia di crescere e al contempo di tornare indietro durante quel bilico gioioso e dolorosissimo che è l’adolescenza.
Fin qui.
Oggi la confessione attraverso un libro: P. La mia adolescenza trans (sempre Feltrinelli Comics). Oggi Josephine si disegna per chi è davvero, quando si era sempre disegnata femmina («Con un sublime taglio minuscolo tra le gambe»). «Ehi bella, vieni a farti un giro», le urla un tizio per strada. Poi, vedendola meglio: «Cazzo, sei un maschio».
Ecco la vera storia di P., dal principio, dal bambino che è stato («Nei disegni però sono stata sempre femmina»). La storia della ragazza in cui continuano a identificarsi tutte, in quanto il genere è una condizione dell’anima, come ti disegni, sì.
Perché il nome Yole?
«Le ragazze bellissime che vedevo in rete si chiamavano Yole. Allora volevo essere una Yole anch’io, è diventata la mia parola di sicurezza. Chiudi gli occhi, e sei Yole».
Li riapri?
«Ancora Yole».
Josephine invece?
«A otto anni ero convinta che tutte le principesse si chiamassero Josephine, e che dovesse arrivare qualcuno a salvarti».
Chi?
«Il solito principe».
Arrivato?
«Le ragazze devono fare da sole, ci tocca. Come aspettare l’autobus venti minuti, e alla fine decidere di andare a piedi».
A che età capisce che deve fare da sé?
«A quattro, cinque anni: io e i miei fratelli venivamo picchiati al parco. Troppo diversi, troppo strani».
In che modo?
«Siamo quattro, quattro fallimenti».
Ovvero?
«Una femmina etero, un maschio omosessuale, una trans, un autistico».
Fallimenti?
«Per la società, non per me».
Per la società chi non lo è?
«Maschio, etero, caucasico, nato in Occidente, cisgender (del sesso con cui è nato, ndr)».
Per Josephine Yole?
«Noi siamo quattro stelle, che sarebbe una definizione di mia madre».
In «P» confessa: «Mamma, non sto bene così, vorrei essere femmina». Quindi le chiede perché non la chiami più stella come da bambina.
«Lei mi abbraccia e dice: “Perché sei diventata un astro”. Nel fumetto, e nella realtà». 
La sua famiglia.
«Mamma ex decoratrice, ha smesso con il primo figlio; papà ingegnere, professore in un liceo artistico».
Che cosa pensano di lei oggi?
«Sono orgogliosi. Certo, papà la vive con maggiore emotività. Ha avuto due ictus, e si commuove per ogni cosa. Guarda un film, e si mette a piangere. Legge una mia intervista, piange».
Torniamo all’infanzia.
«All’asilo ci lasciavano una cesta piena di vestiti. Ogni bambino poteva scegliere cosa indossare. In genere io prendevo la gonna da flamenco, con cui poi saltavo sul tappeto elastico. Anche gli altri maschi comunque sceglievano vestiti da femmine, principesse e fate. Era la dimensione del gioco».
Perduta quella?
«Arriva la distinzione maschio/femmina».
Essere l’uno o l’altro per forza?
«I corpi hanno bisogno del consenso da parte di chi vive nel sistema binario maschio-femmina. Perfino per decidere di fare pipì in piedi o seduti».
Intanto Josephine?
«A dodici anni capisco che mi piacciono maschi e femmine».
E?
«Ricordo la sensazione di tristezza: sapere che i maschi non mi guardavano. Pensavo: “Se questo è l’amore voglio tornare indietro”».
Liceo, le esperienze che racconta nei libri sono vere?
«Ne ho avute tante per scrollarmi di dosso la vergogna derivata dal cattolicesimo. Il primo posto che occupi è il corpo, e se il tuo corpo ti viene bandito...».
Che succede?
«Ho fatto tutto quello che volevo, e che capitava. Eppure ho sempre pensato che la prima volta dovesse essere con la persona amata».
Lo è stata?
«No».
Primo amore?
«Romanzo esplicito è il funerale di quell’amore. L’unico ragazzo per cui abbia provato sentimenti».
Dopo?
«Ero povera, non mi piacevo. Per fortuna scopro il mondo delle chat in cui conosco persone che poi mi vengono a prendere, mi portano a cena, mi regalano sigarette. Ammetto: tante volte mi sono svenduta, quasi per punirmi. Alcune volte finiva male. Ma rifarei tutto».
In che modo finiva male?
«Insulti: donna mancata, aborto, cagna, schifo».
Nel libro lei racconta di un ragazzo appena conosciuto.
«Eravamo nel bosco, ho pensato: “Ora questo mi piscia addosso. Mi ruba i soldi, e scappa”. Non è successo, era una persona per bene, ma arrivi a un livello in cui non ti aspetti più del bene da nessuno. Ti viene da aspettare solo male».
La fine di quel periodo?
«Un uomo più grande di me che mi pagava i debiti. Lì ho capito che non ero così Lolita quanto credevo: non sono riuscita neppure a tenermi l’uomo ricco, sempre per l’ideale dell’amore vero».
Cos’è il maschio?
«Un’invenzione. Come la femmina».
Il momento in cui P. decide di essere femmina?
«A sedici anni. Con il dubbio che fosse solo una questione di capelli, li taglio. Ero confusa, neanch’io sapevo cosa fossi di preciso. Contribuiva il fatto che mi dicessero: “Sei più bella di una ragazza”. Detto con rabbia».
Tagliati i capelli?
«Non cambia niente. Crescendo scopri che non sono i capelli a determinarti. Senza saperlo ero maschilista. Ragionavo da maschilista. Capelli corti, maschio. Capelli lunghi, femmina».
Quindi?
«Con i capelli corti sento che mi manca comunque qualcosa».
A quel punto?
«Cerco di essere una ragazza secondo gli standard della società».
Quali?
«Tacchi alti, non dire troppo di te, fai la signorina. E poi: le vene sulle mani. Un ragazzo mi dice: “Devi rifarti le vene”. I maschi hanno le vene in rilievo, le femmine no. Per un periodo ho avuto il complesso delle vene».
E?
«A diciott’anni comincio la cura ormonale. Prima però succede che mio fratello, il più piccolo, quello autistico, durante una visita dal dottore, dice: “Ho preso ottimo in matematica, papà mi ha portato dal barbiere, mio fratello P. adesso è mia sorella Yole”. Insomma, Luca aveva capito che ero femmina già prima della cura».
Suo fratello Luca.
«È un altro genere che ancora deve venire fuori. Anch’io del resto ero nascosta. Le trans venivano considerate al pari dei disabili, mentre la disabilità è un deficit davanti a una scala, per il resto è un problema della società che ti ha lasciato indietro».
Persino il suo cane è diverso.
«Appena l’ho visto ho pensato: quanto sei brutta. Come me, come mi sento io, come i miei fumetti. Brutto è la mia poetica di vita: non fermarsi al nome, andare oltre le apparenze».
In «Romanzo esplicito» del cane lei dice: “Basterà fare come con i fiori”. Nel senso?
«Curarli. Noi Brutta l’abbiamo nutrita, amata. È bastato per farla diventare bella».
In che modo si diventa belli?
«Non sopporto la retorica del nascere in un corpo sbagliato. Io non sto correggendo niente. Sono un salmone controcorrente, andare controcorrente è la nostra natura di salmoni».
Eppure lei prova a trasformarsi.
«A un certo punto per me il cambiamento fisico è diventato un’ossessione. A volte depressione, per esempio adesso».
Cioè?
«Certe sere non vorrei esistere».
Quelle sere corrispondono ai disegni scuri?
«Io sono una persona triste, e voglio essere guardata per quello che sono. I miei disegni dicono questo. Del resto ho iniziato così: non sapendo più come gestire la tristezza, mi è venuta l’idea di raccontarmi, e ho aperto la pagina Fumettibrutti. Il disegno si è adattato al racconto, non il contrario. Io so disegnare bene, a Catania facevo copie di quadri famosi».
Per molto tempo lei stessa ha cercato di essere una copia, giusto?
«Una parte della mia vita è stata dedicata a essere femmina per gli altri. Poi di colpo non è stato più sostenibile».
Numero di operazioni?
«Sette. Sempre affrontate da sola, anche se nel momento più complicato, il risveglio, mi avrebbe fatto piacere avere qualcuno accanto».
Peggior risveglio?
«Corde vocali, operazione alle corde vocali. Non puoi parlare. E non c’è nessuno che può capirti solo con gli occhi».
Una persona che può capirla con gli occhi?
«Mia madre».
Quando decide di raccontare chi è?
«Per quattro anni ho tenuto nascosta la mia natura. Vivevo a Bologna da individuo senza etichetta».
Poi?
«Ho sentito che non dicendolo perdevo un pezzo». 
Quale?
«P. è stato un adolescente che mi ha insegnato tanto. Con questo libro mi sono ripresa P. e la mia adolescenza».
Conclusione?
«Non è vero che è bello avere segreti. Il misterioso va bene per gli horror, non per le persone».
Che effetto le fa il successo?
«Sentirò la differenza quando avrò 10 mila euro in banca. Al momento sono ancora povera, parto per Catania in pullman, 16 ore di viaggio, non posso permettermi altro».
Qualcosa sarà pur cambiato?
«Mi scrivono in molti: anch’io ho vissuto questo, anch’io ho provato quello. E io penso: dove eravate? Perché non me l’avete detto prima, perché mi avete fatto sentire pazza?».
Quanto pazza?
«La più pazza, la più sola».