Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2019
Peter Handke, dove il mondo pesa meno
Quando ho appreso che Peter Handke aveva vinto il Nobel ne sono stata felice. Ho letto moltissimi dei suoi libri, ma non mi era mai capitato di pensare che potesse vincere il Nobel. Forse abbiamo verso il Premio Nobel dei pregiudizi che sarebbe bene abbandonare.
Sono andata subito a controllare che libri avessi di Handke in libreria: molti, perlopiù le prime edizioni, un po’ Garzanti, un po’ Guanda. Libri piuttosto vecchi e frusti e, abitando io in campagna, segnati da quelle macchioline gialle che denotano senza alcun dubbio umidità.
Ricordo molto bene d’aver sempre letto Handke; appena uscivano i suoi libri ne ero attratta fin dal titolo, non potevo non comprarli e non leggerli. Ma non ricordo nulla dei libri che di lui ho letto. (E su questo mistero, sull’imperscrutabile e anche un po’ inquietante capacità di oblio che noi lettori abbiamo verso i libri che abbiamo letto in altro tempo, e anche amato, non voglio più dire niente: che riposi in noi come mistero e basta).
Ora li ho ripresi in mano, sfogliati, letti qua e là lasciando che il caso guidasse la mia lettura. (Sulla lettura casuale e puntiforme, sull’aprire a caso un libro e leggerne, lì dove cade l’occhio, una frase sola come fosse un oracolo – altro lato misterioso, direi misterico, di noi lettori – vorrei dire questo: forse è irrispettoso verso un libro non seguire la linearità del suo discorso, della trama, del lento e conseguente avvicendarsi del senso; forse è improprio e addirittura blasfemo; ma è anche attribuire al libro un significato ulteriore, che va al di là della sua sostanza e raggiunge quel lato oscuro della vita che variamente chiamiamo destino, anima, Dio. Aprendo a caso, noi trattiamo il libro come un oggetto religioso, magico. Demandiamo a lui di trovare il significato, la direzione, di un nostro atto, di una nostra giornata. Attribuiamo alle cose, in questo caso i libri, un potere divinatorio. Siamo fragili, patetici. È che in questo buio dove siamo calati cerchiamo luce, almeno qualche fiammella, anche arbitraria, anche costruita e fittizia che ci dia l’illusione di pre-vedere, o di non andare così alla cieca).
Mi cade l’occhio su una pagina de Il peso del mondo, un libro di appunti, note diaristiche, dove Handke racconta di aver incontrato una donna che «era già stata ovunque (… e aveva già fatto tutto ciò che, secondo lo Zeitgeist dominante, si dovrebbe aver fatto (…). Ora si trovava nella metropoli per “prendere contatti” (…). Aveva il vizio di volersi sempre affermare. Dicendo tutto quel che aveva fatto stava facendo o avrebbe fatto di lì a poco; e quando le chiesi se per caso talvolta non si sentisse “pigra”, e non girellasse senza meta, mi fissò, seriamente indignata; allora le dissi che in fondo era un peccato che tante persone, spesso per necessità prive di occupazione, dovessero esibire le loro migliaia e migliaia di azioni subito e senza interrompersi mai, e le raccontai la storia di R. Mitchum e della sua piscina; le confessai che anch’io preferirei rispondere, come lui, se mi domandassero cosa io stia facendo: – Nulla. Giaccio come sempre presso il mio swimmingpool. Lasciai poi velocemente la donna e le dissi che forse ci saremmo rivisti di lì a dieci anni. Più tardi tutto ciò, in un certo impreciso modo, mi è dispiaciuto, ma davvero non saprei in che modo queste “persone da palcoscenico” potrebbero essere riguadagnate a loro stesse e agli altri. La sua voce possedeva quelle inflessioni calde, morbidissime, tiepide, insensibili, che pure volevano sottolineare proprio la sua sensibilità, le inflessioni, insomma, di tutti questi fiacchi addetti ai lavori culturali, divenuti ora spontanei e sensibili, dopo esser stati politici; a tali persone non ci si può accostare se non schiaffeggiandole in pieno viso».
La data che Handke riporta, per questo suo ricordo, è il 5 maggio 1976. È buffo che quel che lui pensava quel giorno di maggio di quarantatré anni fa risuoni oggi in me con tanta potenza (altra magia della lettura, il tempo che non passa…). Non so nulla della donna di cui parla e che dice d’aver incontrato, che lavoro facesse e per quali ragioni la conosceva (era una fiacca addetta ai lavori culturali, probabilmente), eppure mi sento così coinvolta, così partecipe: quella donna mi sembra che assomigli a decine di persone che io conosco, «persone da palcoscenico», di cui potrei dire le stesse cose, ma di cui non saprei dire così bene il profondo senso di estraneità e disagio che mi suscitano. Per esempio di sicuro non direi mai che le prenderei a schiaffi, sento che non oserei. Di questo ringrazio oggi Handke, per averlo detto lui per me.
E poi, lo Zeitgeist… Oggi come allora… Lo spirito del tempo che ci opprime e soffoca, che dirige ogni nostra parola e azione, anzi, parla per noi, obnubila le nostre vere idee, disprezza i nostri pensieri qualora siano troppo personali, isolati, inutili; e anche oggi ci fisserebbe «seriamente indignato» se dicessimo di essere pigri, e di amare così tanto «girellare senza meta» (che bel verbo girellare! non sapendo il tedesco, ne siamo grati al traduttore Raoul Precht dell’edizione Guanda 1977): temo che ci considererebbe scrittori dis-impegnati, o meglio, che non ci considererebbe, noi che amiamo le piscine, noi che, se ci domandassero cosa stiamo facendo, risponderemmo: «Nulla. Giaccio come sempre presso il mio swimmingpool».
Se non avessero dato il Nobel a Handke, non avrei mai riaperto Il peso del mondo. Se non lo avessi riaperto, non mi sentirei ora così sollevata, da quel peso del mondo che mi capita spesso di sentire così schiacciante. Ora il mondo, grazie a Handke, almeno per qualche ora (quanto dura l’effetto di un libro, di una pagina, di una frase?) mi peserà di meno: ho trovato in lui le parole che mi sollevano, e che in me non stavo trovando.
Grazie alla lettura casuale, all’imponderabile insito nel gesto di leggere. Ho voluto trascrivere quel che casualmente ho letto. Trascrivere perché anche altri leggano quel che magari non avrebbero mai letto o riletto, perché il caso che li concerne non li stava portando lì. Trascrivere mi sembra un buon modo di leggere, o rileggere, un autore. Meglio che parlarne genericamente, o farne un astruso discorso critico. Trascrivere, con gratitudine, dei brani mi pare meglio. Lo abbiamo sempre fatto, in fondo, fin da ragazzi quando mandavamo agli amici bigliettini infarciti di citazioni per dire attraverso altri, attraverso i grandi della letteratura, quel che noi non eravamo capaci di dire così bene. Tutto sommato, è quel che facciamo oggi sfiorando l’icona “condividi”.
Poi ho riletto interamente La donna mancina. Lì non mi è bastato leggerne a caso qualche frase. L’ho riletto tutto avidamente, avvalorandomi del solito privilegio d’aver dimenticato tutto (lo lessi quando uscì tradotto, nel lontano 1979). Che dire? Handke non è un romanziere, è un poeta che scrive romanzi. Pochi riescono a raccontare la solitudine della vita e, insieme, i gesti comuni e banali che ci riempiono ogni giorno quella solitudine, nello stesso tempo annullandola e moltiplicandola.
Scelgo, di nuovo a caso:«“Da un momento all’altro cominciò a spostare i mobili; il bambino l’aiutava. Tutti e due si mettevano ora in questo ora in quell’angolo a guardare gli ambienti mutati. Fuori cadeva una fitta pioggia invernale che rimbalzava come grandine sul suolo indurito. Il bambino spingeva avanti e indietro il battitappeto; la donna, a capo scoperto sulla terrazza, puliva la grande vetrata con dei giornali vecchi. Poi sparse schiuma antimacchia sulla moquette. Raccolse carte e libri in un sacco per le immondizie che stava accostato ad altri già pieni e già legati. Lustrò con uno straccio la cassetta delle lettere fuori della porta; poi stava nel soggiorno, in cima a una scala, sotto il lampadario, e svitava una lampadina e ne avvitava una nuova, più forte».
Difficile raccontare i gesti. E farne una storia. Difficile lasciare i gesti nel loro assoluto, come fa Handke nei suoi libri. Tocca a noi che leggiamo decidere se siano pieni di senso oppure no.
Infine, ancora da Il peso del mondo, il 2 aprile 1976: «Un nuovo esempio di idiozia è la seguente frase di uno scrittore: “Occorre chiedere a questi pedanti: com’è possibile che la sera in cui gli americani infrangendo ogni accordo, attaccarono la Cambogia con bombe al napalm, voi siate rimasti a casa? Cosa avete fatto quella sera?” (La mistificazione insita nel “rimanere a casa” come nello “scendere-in-piazza”: come se il rimanere a casa dovesse significare che non si è partecipi, mentre lo scendere in piazza fosse invece la prova inconfutabile della partecipazione al dolore e alla rabbia)».
Non sono sicura, soprattutto rispetto alla questione di Milosevic, di avere le stesse idee di Handke. Anzi, direi di no. Ma sono comunque felice che i giurati del Nobel abbiano deciso di affermare, con la loro scelta, che contano le opere di uno scrittore, più che le sue idee politiche. E covo anche il sottile piacere di pensare che, per una volta, nei riguardi di Handke, non abbia contato il suo essere contro lo Zeitgeist…
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