Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2019
A tu per tu con Tullio Pericoli
Scendiamo le scale e arriviamo al piano terra dell’ “atelier di ringhiera” di Tullio Pericoli in pieno centro di Milano. Addossate con delicatezza le une alle altre, ci sono le opere, tele e disegni, pronte per essere spedite per la sua prossima mostra. Vanno a Parigi, alla Galleria Gallimard (sì, quella della celeberrima casa editrice): il 6 novembre si inaugura «Samuel Beckett. Le plus beau visage du XX siècle». Una delle “ossessioni pericolose” (e non pericoliane, e c’è un motivo nell’ambiguità dell’aggettivo) più tipiche: ma non è solo una mostra antologica. No. Tullio Pericoli – un artista la cui grandezza non è immediatamente percepibile e che continuamente si sottrae, opere e vita, a una lettura semplificata di ciò che ha fatto e va facendo – è ritornato per l’ennesima volta sul luogo del delitto: la faccia dello scrittore irlandese. Mi mostra uno dei ritratti recentissimi. Lo ha scavato su calce da muro, proprio come se fosse un graffito. Il bianco sporco e materico del fondo, le rughe – che sono solchi profondi di un territorio insondabile e mai spiegato del tutto (l’analogia è con i “ritratti” del territorio che sono i suoi paesaggi, altra tipica ossessione) –, colorate da un tratto di matita veloce, eppure sapiente, danno rinnovato stupore: l’inquietudine con la quale ci scruta la faccia di Beckett, e che ci suscita, è la stessa, alla fine, della pittura di Pericoli.
Pericoli non è mai rilassato, anche se lo appare: si impegna, prende le cose seriamente, sta attento; alle domande che gli vengono poste, alle risposte che deve dare, meticoloso nelle parole, nella scelta delle parole e quasi “sospettoso”, anzi, di ciò che esse possono celare. Mentre lo intervisto o divaghiamo, ho spesso l’impressione che si chieda perché gli ho fatto proprio quella domanda. Il suo atelier è un campo di battaglia intellettuale, con munizioni, rifugi, territori neutrali; di qua le pareti foderate dei libri suoi e altrui (ed è davvero un gran lettore), di là il tavolo dove disegna, e un altro, enorme, dove legge, accomoda le letture correnti e gli ospiti per chiacchierare; in fondo il cavalletto e tutti gli attrezzi del mestiere: è il cuore pulsante dell’ambiente, dove la pittura prenderà vita, forma. Mi colpisce quando afferma: «Non mi sento un artista contemporaneo». Di nuovo: lo dice con un rovello. «Una parte dell’arte di oggi» – spiega meglio –«si è definita o è stata definita “Arte contemporanea”. Questa arte fa parte di un sistema, ha delle regole e delle forme». Non basta. E continua. «Io mi sento, tuttavia, un artista del mio tempo, che cerca di rispecchiare le idee, le inquietudini e i disagi del suo tempo. Non vuol dire che abbia nostalgia di un modo diverso di fare arte. I miei primi contatti con il mondo dell’arte e del mercato sono avvenuti tra gli anni 70 e 80 e già allora si delineavano i metodi che si sarebbero affermati maggiormente in futuro. Dopo un’esperienza di quasi dieci anni con una galleria milanese, me ne sono allontanato».
Splendido solitario nell’arte, Pericoli ha tuttavia avuto una straordinaria stagione pubblica. I suoi disegni per i giornali sono l’attività per la quale è diventato noto. Ma di più: infatti, forse al grandissimo pubblico potrà sfuggire il suo nome, ma certamente non la sua mano, la sua arte: è riuscito, cioè, Pericoli, ad imporre il suo tratto, il suo segno, nell’immaginario collettivo. Anche uno che non lo conosca, saprà però, appena vista una sua opera (soprattutto i ritratti), di avere già visto quell’opera. Merito della sua collaborazione pluridecennale con “la Repubblica”: e non credo che esista al mondo un giornale (forse solo la «New York Review of Books» con David Levine) che si sia così totalmente identificato con un segno grafico. Pericoli è – dal punto di vista visivo – “la Repubblica” e viceversa. «Ultimamente ho ottenuto che ci sia la data accanto ai disegni che pubblicano»; da più di dieci anni, infatti, Pericoli si è dedicato solo alla sua pittura, non più alla «pittura per giornali». Il suo segno, quando lo si rivede nelle pagine del giornale, non ha perso un minimo di freschezza; certo la ricerca sui paesaggi, per dire, è molto meno immediata da cogliere dei ritratti o delle felici ambientazioni, quasi oniriche, dei lavori per il quotidiano.
Ritorniamo su arte e mercato e ripartiamo da una ferita antica (è evidente, mentre me la racconta: come e perché abbandonò la sua galleria). «Il mercato dovrebbe sfruttare commercialmente il valore di un artista, non determinarlo. E non dovrebbe farne oggetto di investimento». Gli chiedo se arrivi da lì il rifiuto di avere un gallerista, in questo modo non partecipando al grande gioco, e business, dell’arte. «Ogni gioco ha delle regole, invece l’artista non dovrebbe averne. La libertà è indispensabile nella ricerca, ne alimenta il valore e la qualità. Le regole sono catene, impedimenti, alla qualità stessa della ricerca e al suo valore. E soprattutto ne contagiano la cosa più importante che è la sincerità». Non sembri una parola naif. «Sincerità» è un termine quasi commovente e perfettamente calzante per Pericoli, il cui incessante lavoro artistico dimostra quanto tenda e tenga a questo aspetto, quanto lotti per questo concetto.
Da poco ha pubblicato, per Adelphi, un libretto che si intitola Incroci («l’incrocio lega e separa» spiega acutamente). Racconta, con sincerità, appunto, persone, ed episodi, che sono diventati, in qualche modo, cruciali per la sua traiettoria esistenziale. Ci sono Livio Garzanti e Giorgio Bocca, Melotti (un’amicizia nata da una sordità) e Montale (e un passaggio in macchina), Eco (l’amico di una vita, «ma che non parlava mai di sé») e Pirella (con il quale formò una coppia satirica memorabile); e, poi, Italo Pietra. «Era direttore del “Giorno”, il giornale per il quale lavoravo allora. Mi si avvicinò al tavolo e, con mia sorpresa, mi chiese una mia opera. “Ma non un disegno che fai per il giornale. Vorrei un quadro del tuo paese”. Mi fece girare la testa. Il mio paese: e perché? Cosa ne sapeva? Mi mise nel panico, ma fu grazie a lui che tornai a Colli del Tronto e iniziai, davvero, a vedere il paesaggio». Una relazione con il paesaggio che si è trasformata in opera d’arte: una passione minuta per le vertebre della terra, la bellezza degli alberi, la delicatezza delle colline, il fuoco che sobbolle nelle viscere del pianeta e sa essere a volte terribile: Pericoli, nella sua pittura, osserva tutto e ci mette la poesia della sua mano. La mostra (fino a maggio 2020) nella sua città, Ascoli, lo evidenzia: 160 opere di estenuante sguardo, ricerca, per capire (ed essere “compresi” dal) paesaggio; il miracolo del paesaggio.
La sua scrittura è sobria: Pericoli è bravo nella prosa quasi come nella pittura, ma schiva il complimento con uno sbuffo e un’occhiata perplessa. Invece, questo, lo si era già capito con i precedenti libri, teorici e insieme pratici, nei quali aveva descritto la sua attività: («Ho sempre saputo, fin da ragazzo, che avrei fatto l’artista») i Pensieri della mano e Storie della mia matita (il vero oggetto feticcio della sua vita). Lì ha spiegato cosa è per lui disegnare, l’arte più difficile che esista. «C’è tutta una parte di arte contemporanea» mi dice «nella quale il corpo dell’artista è staccato dall’opera. Invece, per me, no: io sento la continuità che c’è tra cervello, mano e opera». Pericoli ha molto pensato all’arte, a dove nasce e come si fa; un mistero ineffabile. «Ci sono pittori che usano il polso, altri che mettono il busto. Ci sono delle foto di Picasso che, in mutandoni, dipinge una parete con un pennello attaccato a un’asta. Sta dipingendo con il torace, con le spalle, con i muscoli delle gambe, con la forza dei piedi...». Gli dico che dovrebbe scrivere una storia dell’arte dal punto di vista del corpo umano; sarebbe interessante. Lo affascina ancora molto pensare al processo creativo: «In un progetto, la parte più bella è quella iniziale, quando la fantasia sembra inoltrarsi in terreni ancora non noti. Poi c’è il rapporto con la materia e con le proprie capacità e mezzi linguistici. Qui tutto si complica, ed è proprio nella complicazione, nel non capire chi o cosa prevalga, che si viene assorbiti dall’emozione». Ecco: Pericoli non ha paura di usare parole come «sincerità», «emozione», «fantasia», termini che sembrano invece espulsi oggi da un linguaggio critico-artistico che si ammanta di cerebralità e rimandi colti: in ciò sarà rimasto pure un “provinciale”, ma è evidente che è lui dalla parte della ragione: quando vedi la forza di un suo ritratto, lo schiaffo, la presenza “fisica” e la sincerità della pittura la avverti eccome. Mi racconta di disavventure milanesi («ero andato ad abitare, senza saperlo, nel palazzo dove avvenne il famoso, allora, caso di cronaca di Rina Fort»), di episodi belli e no della sua carriera di pittore (compreso il fatto che sia rimasto male dall’esito della vicenda ascolana: una fondazione che, poi, non s’è più fatta...), delle amicizie che qui nell’atelier lo circondano (Eco, Benigni, Calvino, Paolo Conte e così via, in dediche, lettere, messaggi): non si vanta di nessuna.
Sta lavorando a una serie di immagini per una “favola” sulla creazione del mondo di Walter Benjamin per le Edizioni Henry Beyle: ha dipinto delle tavole piccole, astratte, bellissime, con i neri e qualche traccia di colore che si susseguono e si completano a vicenda. Recentemente gli hanno dato un Premio Speciale nell’ambito del Premio letterario Dessì: «All’esatto incrocio di scrittura e visione risiede la sua arte: un’arte della precisione e della visione, una scrittura di segni pittorici e una pittura che sembra una calligrafia dell’anima e del territorio, capace di lasciare aperta la porta ai sogni ma che non si distacca dalla realtà» si legge nella motivazione.
Gli chiedo se c’è un quadro suo dal quale non si separerà mai. «Sì: è questo autoritratto». Me lo mostra, è appeso a una parete, piccolo, discreto, ma potente. «Me lo aveva commissionato un collezionista amico al quale lo avevo venduto. L’ho pregato, poi, di ridarmelo. Molte volte, ma ha sempre rimandato. Un giorno, finalmente, si presenta a casa mia, nel bel mezzo di una cena, e me lo restituisce. E se ne va. Non lo sapevo, ma era ammalato, qualche giorno dopo è morto». Sarebbe, è, una vicenda da romanzo o da novella pirandelliana. In quel ritratto, Pericoli è su un letto; per terra mazzi di pennelli, matite, tavolozze, attrezzi del mestiere e tutte cose che gli sono state care; sopra di lui un cielo, come li disegna lui, con volute di nuvole e aria e refoli che ti pare di sentire la brezza, mentre “tutto ormai sventola e danza”; in mezzo c’è lui: che ti guarda, che ci guarda, che interroga, con quegli occhiali tondi da gufo e l’aria sorpresa, stralunata, e seria, dubitativa, irrequieta, ma con l’incanto di chi sa che è con l’occhio, con la forza dello sguardo, che si coglie la verità. La verità che è nella pittura, la verità dell’arte. E, quindi, della vita.