il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2019
Biografia di Giuseppe Provenzano
Giuseppe Provenzano è uno dei pochi uomini ad aver scoperto il potere subito dopo averlo rifiutato, e proprio grazie a quel rifiuto. La sua ascesa si compie alla vigilia delle elezioni del 4 marzo 2018, che stanno per passare alla storia come quelle del tracollo del Partito democratico. Provenzano avrebbe un posticino nelle liste del Pd nella sua Sicilia, nel collegio plurinominale di Agrigento-Caltanissetta (lui è originario di Milena, comune nisseno).
È piazzato in seconda posizione, potrebbe anche essere eletto. Ma sopra di lui legge il nome (noto) di Daniela Cardinale: la figlia dell’ex ministro Totò.
Sull’isola quel cognome significa alcune cose chiare: Democrazia cristiana, preferenze, opportunismo politico e spericolati cambi di casacca (nella carriera di Salvatore Cardinale sono state collezionate, a spanne, le tessere di Dc, Ccd, Udeur, Margherita, Pd, Sicilia futura). La candidatura della figlia non si spiega per altre ragioni se non per “merito dinastico”.
Peppe Provenzano potrebbe starsene zitto e giocarsi la lotteria che conduce a Montecitorio: col senno di poi, avrebbe perso (la Cardinale sarà l’unica eletta del collegio). Invece parla, e cita Bartleby lo scrivano, il protagonista del racconto di Melville. Come lui, si impunta: “Preferirei di no”.
Lo fa al Nazareno, la notte del 27 gennaio 2018. Prende il microfono e lo tiene solo un minuto, quello che basta: “Non credevo più che nel Sud ci si dovesse impegnare per abolire l’ereditarietà delle cariche pubbliche, un principio sancito secoli fa. Nella mia provincia (Caltanissetta, ndr) 21 circoli su 22 si sono pronunciati contro la candidatura della capolista (Cardinale, ndr). Abbiamo detto che se non si fosse superato questo residuo feudale, avremmo riconsegnato le tessere del Pd. Io non restituisco la tessera, perché sono impegnato in questa campagna elettorale contro la destra. Ma non posso mettere la faccia su questo. Non solo io, ma l’intero Partito democratico, rischiamo di perderla. Ringrazio il segretario, ma rinuncio”.
Quella notte, dopo aver pronunciato queste parole, Provenzano non aveva in mano più nulla. Meno di due anni dopo è ministro del Sud e della Coesione territoriale nel secondo governo Conte. Cos’è successo nel frattempo?
Il segretario a cui Peppe “il Rosso” ha detto di no si chiamava ancora Matteo Renzi. Stava esercitando (in modo piuttosto arbitrario) le ultime stille del suo potere sul Pd: le liste elettorali. In quella stagione morente – per convinzione o per astuzia – Provenzano ha saputo leggere un’enorme opportunità. Il Pd si avviava al disastro dopo anni di moderatismo e spregiudicatezze: a sinistra si erano spalancate praterie.
Provenzano non ha fatto fatica a piazzarsi lì, al posto giusto e al momento giusto. Ha criticato in modo lucido e spietato le debolezze del partito di Matteo: “Le liste sono state compilate in maniera padronale. Renzi ha fatto quello che voleva, ma non è colpa solo sua, è mancata un’intera classe dirigente. Rispetto delle minoranze, regole interne, statuto: è saltato tutto. Sulla parità di genere, cos’è successo? Una vergogna”. E ancora: “I giovani ci speravano nella ‘rottamazione’, ma i renziani al potere per l’Italia erano e sono l’establishment e non smettono di esserlo: élite in negativo e non in positivo. Hanno fatto polemica sul curriculum di Di Maio, ma scusate qual era il loro curriculum, quale il curriculum di Luca Lotti, dei famigliari, dei trasformisti che ha raccattato nelle liste elettorali?”.
Nel cambio di stagione al Nazareno, Nicola Zingaretti ha puntato sulle potenzialità di questo 37enne: il suo era il profilo ideale.
Provenzano ha il volto pulito ed è giovane, ma è pure imbevuto di cultura politica: parla e scrive come se avesse studiato alle Frattocchie e imparato a memoria i testi sacri del comunismo italiano.
È legato ad Andrea Orlando e alla sua corrente, ma è riuscito a farsi percepire come una persona fuori dagli schemi conosciuti (e incancreniti) del partito.
Ha l’aria quasi pop, ma pure una formazione solida: si è laureato e dottorato in Economia all’Università di Siena (si è iscritto nel luglio 2001, nei giorni della morte di Carlo Giuliani a Genova, e ha passato la prova scritta l’11 settembre 2001) ed è vicedirettore della Svimez, l’associazione che studia ed elabora proposte per lo sviluppo del Mezzogiorno.
Ha firmato articoli su giornali e riviste (L’Unità, Repubblica, Huffington Post, Limes), ha pubblicato un saggio sulla sopravvivenza dei post comunisti (La sinistra e la scintilla) e un romanzo dalla scrittura estetizzante e dalle evocazioni sensuali (“Stravaganti voglie di amori perduti”).
Peppe il Rosso è rosso da testa a piedi. Il caschetto sobrio e ben curato, la barba in ordine, pure la montatura degli occhiali. È rossa la sua passione politica, sin da ragazzino, sono rosse le sue parole su lavoro, disuguaglianze e ingiustizie. Era il colore di cui aveva bisogno il Pd per chiudere definitivamente l’anemica stagione renziana e dare un segno di rinnovamento e discontinuità, così Zingaretti l’ha nominato responsabile del Lavoro.
Era il rosso di cui aveva bisogno Giuseppe Conte per accendere le timide tinte giallorosa del suo secondo governo, così gli è stato dato il ministero del Sud. Ed è proprio questa la vera incognita della vita “adulta” di Provenzano: ora deve dimostrare di non essere solo una figurina, o una passata di vernice vermiglio per coprire le macchie degli altri.