La Stampa, 27 ottobre 2019
Il sacro sostituito dal sapere digitale
«Un vento sovrannaturale cominciò a soffiare, quando la Torre era già così alta che non se ne vedeva la cima. Era un vento che non somigliava a nessun altro e voleva soltanto distruggere. Quando i mattoni, che i costruttori avevano siglato con i loro nomi, uno per uno, cominciarono a precipitare, gli uomini si accorsero che non si capivano più fra loro»: così, in uno dei passaggi nodali del suo nuovo lavoro Il libro di tutti i libri (Adelphi, pp. 555, € 28), lo scrittore Roberto Calasso narra della Torre di Babele, la tenacia degli uomini nel costruirla, la risoluzione di Yahvé, Dio, nel demolirla, il castigo di non comprender più le lingue altrui.
La Torre di Babele del presente è la tecnologia, con la stessa nevrosi di allora - «Facciamoci un nome, per non essere dispersi sulla faccia di tutta la Terra». Se le donne della Bibbia «partorivano foggiando mattoni» per la Torre «che i costruttori avevano siglato con i loro nomi», noi incidiamo il nome sui social media, nell’illusione risulti meno effimero dei muri nell’Antico Testamento. E Intelligenza Artificiale, traduttori prodigiosi di Google, machine learning e quantum computer dalla potenza infinita non hanno forse come fine proprio permettere a ciascuno di noi di parlare in ogni lingua, azzerando, con orgogliosi algoritmi, il castigo divino a Babele, la diaspora delle comunicazioni?
Il libro di tutti i libri, verrebbe da dire, è il nuovo mattone della Torre di libri magnifici su cui Roberto Calasso ha inciso il suo nome, dieci da La rovina di Kasch, 1983, passando per Le nozze di Cadmo e Armonia, 1988, e Ka, 1996, Il cacciatore celeste, 2016, L’innominabile attuale, 2017, che ci pongono con ineludibile urgenza davanti al dilemma: come si vive in un mondo che ha perduto il senso del sacro, lasciandone il carisma solo alle immagini del potere materiale, Putin e Xi, e alla potenza del sapere digitale, le piattaforme social?
Non ci sono mai statistiche nel lavoro di erudita filologia e narrazione epica di Calasso, ma arrivando alla fine de Il libro di tutti i libri, la Bibbia, ripenserete ai numeri del tempo nostro, solo il 18% degli europei pratica ormai una religione e appena il 27% «crede in Dio come descritto dalla Bibbia» (fonte Pew Research, 2018). Come un miliziano greco sulla piana di Salamina, un fedele indù al tempio, una donna dell’estremo Nord che partorisce protetta dagli sciamani, il lettore di questo libro «crederà» invece in Dio, ne vivrà l’opera sulla Terra come reale, si rattristerà per le pene di Profeti e Re, Samuele, Saul, Davide, Salomone, sbirciando alla porta per vedere se ci son davvero gli Angeli a raccogliere le nostre preghiere per condurle in Cielo.
È la «solitudine precedente alla Creazione» a mettere in cammino Calasso: Dio non è «morto», come volevano il filosofo Nietzsche e i teologi Tillich e Altizer, Dio è «solo», e per l’intero Antico Testamento bussa, monaco viandante, all’anima di uomini e donne per creare con loro un legame che dia significato a esistenza e universo. Non si tratta di aderire, o meno, a un codice etico, «gli eletti», annota Calasso, «non sono mai semplicemente coloro che accumulano meriti. Se così fosse, il mondo sarebbe una interminabile e tediosa lezione di morale». Ben celati nei volumi della serie, quasi sfuggiti all’autocontrollo dell’autore, affiorano riferimenti all’attualità e anche in questa fatica la contemporaneità si fa evocare, per quanto remota sembri l’ispirazione in partenza: «Novecentosettantaquattro generazioni prima che il mondo venisse creato, la Torah fu scritta…».
La fede con cui l’autore separa il sacro dall’osservazione di riti e precetti, la conversazione aperta con Dio dal moralismo, cade come una lama sulla polemica che lacera il mondo cristiano, cattolico soprattutto, nella difficile transizione tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Tanti fedeli, confusi tra secolarismo e nichilismo crescenti, con i conservatori nascosti nel moralismo beghino per paura, troveranno ne Il libro di tutti i libri un testo di devozioni quotidiane, mentre i non credenti ne potranno fare pietra di paragone aguzza di certezze caduche. Gesù e la rivoluzione dei Vangeli sembrano far capolino sporadico nelle 555 pagine, appena 5 citazioni per «Cristo», una quindicina per «Gesù», ma vi ho detto che i numeri non governano qui come nei computer binari. Leggerete allora del profeta Osea, vissuto otto secoli prima di Cristo, che predica presago «Voglio la misericordia e non il sacrificio, / la conoscenza di Dio e non gli olocausti». Gesù lo cita dicendo a sua volta «Se sapeste che cosa è: Voglio la misericordia e non il sacrificio, mai avreste condannato innocenti», come premessa a una frase di «chiarezza abbagliante: "Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori"».
Calasso organizza il testo in una serie di paragrafi di lunghezza variante, ciascuno autonomo, un lungo aforisma, tutti legati, ma potreste aprire il libro a caso, da cabalisti, e proseguire avanti e indietro ricreando i nessi per chance: eppure, sempre, la coerenza si riallineerà severa e esatta, nessun passaggio superfluo. Ogni spunto si inserisce preciso, da Harpo Marx, il comico americano citato insieme a Saul, agli «esattori e peccatori» la cui compagnia i Farisei contestano a Gesù, «e non dovevano essere sciocchi, se mettevano insieme quelle due categorie come se fossero un compendio del mondo». E chissà se Calasso lesse a suo tempo che Rudi Dutschke, lo studente leader del 1968 in Germania, morto per le conseguenze di un attentato neonazista, volle chiamare il figlio proprio «Osea Che», in omaggio al radicalismo del profeta e Guevara.
Non i precetti dunque, corsetto dell’etica, ci daranno la salvezza, ma «la misericordia», e per chi lo saprà comprendere il patto divino verrà confermato in eterno: «non nella Bibbia, ma in una preghiera chiamata Gevurot, Potenze… "Tu che fai rivivere i morti"».