Corriere della Sera, 27 ottobre 2019
L’Europa accolga Albania e Macedonia
I Paesi che firmarono i Trattati di Roma in Campidoglio per la creazione di un mercato comune, il 25 marzo 1957, erano sei: Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Italia e Paesi Bassi. Oggi sono 28 e hanno considerevolmente esteso l’area della loro convivenza e collaborazione. Non sorprende che qualcuno (in questo caso il presidente francese Emmanuel Macron) cominci a chiedersi se non sia arrivato il momento di fare una sosta e prendere fiato. Ma quando sostiene sul Corriere del 21 ottobre che l’Albania e la Macedonia del Nord non possono essere lasciate in sala d’aspetto, Maurizio Caprara ha ragione. Abbiamo spalancato le porte dell’Unione a Paesi che avevano altri orizzonti, altre prospettive e un diverso concetto dello Stato democratico. Abbiamo tollerato che qualche Paese della Mitteleuropa, ormai membro dell’Unione Europea, mettesse in discussione l’indipendenza del potere giudiziario o costringesse una libera università a trasferirsi in un altro Paese. Abbiamo permesso che un primo ministro (Viktor Orbán ) si definisse orgogliosamente illiberale. Dovremmo trattare la Macedonia e l’Albania alla stregua di estranei impreparati e immaturi?
È arrivato il momento in cui l’Unione deve comportarsi, in questa materia, come un grande Stato. Non abbiamo soltanto frontiere nazionali. Abbiamo anche zone d’influenza che è nostro interesse proteggere e coltivare, legami storici che occorre custodire e rafforzare. Dovremmo avere capito sin dalle guerre jugoslave che i Balcani sono le nostre porte di casa e che niente di ciò che vi accade può lasciarci indifferenti. È difficile immaginare che la Macedonia del Nord e l’Albania (poco più di due milioni di abitanti la prima, poco meno di tre la seconda) divengano altrettante Svizzere o Finlandie. Se non saranno membri dell’Unione Europea in tempi relativamente brevi, troveranno altri tutori o diventeranno indirizzi di comodo per attività discutibili. L’Italia è troppo vicina a quelle terre per disinteressarsi della loro sorte. Penso soprattutto all’Albania. Dopo una breve parentesi italiana all’inizio degli anni ‘40, il Paese fu sino al 1990, sotto la guida di Enver Hoxha, un impettito modello di ortodossia comunista, il luogo in cui persino Nikita Khruschev era considerato pericolosamente revisionista. Ma in quegli anni, grazie ai programmi della Rai, l’Italia fu la sua finestra sull’Europa e, dopo la crisi dello Stato comunista, il Paese che ha dato lavoro al maggior numero dei suoi cittadini. Non basta. Salvo errore siamo il solo Paese che ospita in una piazza della sua capitale la statua equestre dell’eroe nazionale albanese: il principe Giorgio Castriota Scanderbeg, protagonista e vincitore di grandi battaglie contro i turchi ottomani nel XV° secolo.