Corriere della Sera, 27 ottobre 2019
Correggere la società ingiusta
Ci sono tre tipi di disuguaglianza: fra Paesi, all’interno di uno stesso Paese e fra diverse generazioni. Negli ultimi decenni la disuguaglianza nel mondo è diminuita, grazie al commercio internazionale ed alla globalizzazione. Paesi poveri, come Cina e India, e più recentemente anche molti Paesi africani e dell’America Latina, oggi crescono più delle nazioni ricche. Quarant’anni fa il reddito pro capite degli Stati Uniti era 24 volte maggiore di quello indiano, e questo anche tenendo conto del fatto che in India la maggior parte dei prodotti costa molto meno che in America. Oggi, nonostante l’India continui a restare relativamente povera, la distanza con gli Stati Uniti si è molto ridotta. La differenza nel reddito pro capite tra un cittadino statunitense e uno indiano si è dimezzata: da 24 a 12 volte. Il risultato è ancora più straordinario per la Cina: da 24 volte a 5.
All’interno dei Paesi, invece, la disuguaglianza è salita. Soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in molti altri Paesi, compresa la Cina. In particolare è molto aumentato il reddito dell’1 per cento più benestante dei cittadini, il cosiddetto «top 1 per cent». Negli Stati Uniti quarant’anni fa il 10 per cento del reddito nazionale prima delle tasse andava al top 1 per cent, oggi quella quota è salita al 20 per cento (sebbene la tassazione la riduca al 16 per cento). Il fenomeno è ancora più accentuato per il «top 0,01 per cent».
Il reddito di questo piccolo gruppo (solo 23 mila persone su una popolazione di oltre 230 milioni) in 40 anni si è moltiplicato di quasi 5 volte (+450 per cento, +420 per cento dopo le tasse). Il reddito della metà più povera della popolazione nello stesso arco di tempo è aumentato solo dell’un per cento (sebbene tasse e redistribuzione abbiano fatto salire quella quota al 21%.)
L’aumento della disuguaglianza è stato molto inferiore in Europa: in quarant’anni, prima di tasse e redistribuzione, la quota dei top 1 per cent è salita dal 7,5 per cento all’11 per cento, a fronte di un aumento dal 10 al 20 negli Stati Uniti. In Italia l’aumento di questa misura di diseguaglianza è stato ancor meno accentuato: dal 7,5 al 9,4 per cento. (Per tutti questi numeri si veda il «World Inequality Database».)
La disuguaglianza è particolarmente inaccettabile quando si accompagna a immobilità sociale, cioè quando i ricchi rimangono ricchi per generazioni anche se fanno poco o nulla, mentre i poveri rimangono affossati nella povertà anche se si impegnano per uscirne. Una ricerca di uno di noi (Alberto Alesina, con Armando Miano e Stefanie Stantcheva «Social mobility and preferences for redistribution») evidenzia come europei e americani siano particolarmente avversi alla disuguaglianza e disposti a combatterla quando essa si accompagna a immobilità sociale.
E di immobilità sociale ce n’è molta, e persiste anche per secoli. La ricerca di Guglielmo Barone e Sauro Mocetti, in un lavoro recente presso la Banca d’Italia («Intergenerational Mobility in the very long run: Florence 1427-2011»), ha dimostrato come le famiglie fiorentine oggi più ricche abbiano lo stesso cognome delle famiglie più ricche nella Firenze del ’500. Una caratteristica evidente soprattutto in alcune professioni (avvocati, orafi, banchieri) dove pare esistere un «pavimento di vetro» che da una generazione all’altra protegge chi ha avuto la fortuna di nascere in queste famiglie dal rischio di diventare povero.
Il terzo tipo di disuguaglianza è quello fra generazioni. Sistemi pensionistici sbilanciati ridistribuiscono reddito dai giovani che lavorano agli anziani che ricevono una pensione senza avervi concorso a sufficienza con i loro contributi. Certo, un po’ di questa redistribuzione fra generazioni è «compensata» all’interno della famiglia, nel senso che spesso la pensione dei genitori contribuisce a sostenere i figli che ancora non lavorano. Ma questa compensazione crea inutili dipendenze economiche infra-familiari che ritardano l’emancipazione dei giovani dalla famiglia e soprattutto interferiscono con la mobilità geografica e sociale. Chi oggi è giovane non potrà permettersi i benefici pensionistici dei suoi genitori. Oltre ad ereditare il macigno del debito pubblico.
Che cosa fare dunque? Prima di tutto rifiutare il protezionismo che ricaccerebbe i Paesi emergenti nella povertà senza aiutare (anzi danneggiandola) la crescita dei Paesi più ricchi. I cittadini delle nazioni danneggiate dalla globalizzazione, che ha trasferito posti di lavoro all’estero, devono essere aiutati: ma non impedendo il libero commercio che resta il maggior fattore di crescita nel mondo.
Per arginare la disuguaglianza all’interno di un Paese, e aumentare la mobilità sociale, a noi pare che una delle strade da seguire possa essere quella di tassare, con opportuni accorgimenti legati al reddito e con aliquote progressive, eredità e donazioni infra-familari «inter vivos». E usare il gettito per finanziare politiche che favoriscano le pari opportunità. A questo andrebbe accompagnata la detassazione delle quote di eredità destinate a enti no-profit (ospedali, scuole, università) per finanziare, ad esempio, borse di studio per i meno abbienti. Così si ridurrebbe il trasferimento diretto di ricchezza fra generazioni di ricchi, finanziando al contempo spese che aumentano le pari opportunità, e quindi favorendo la mobilità sociale.
Certo, le tasse sull’eredità, così come tutte le imposte, hanno effetti distorsivi: riducono il risparmio dei più ricchi. Ma è un costo che val la pena sopportare, soprattutto oggi che più del risparmio serve il consumo. E non c’è dubbio che tasse sulle eredità siano meno distorsive di aliquote elevatissime sul reddito della parte più ricca della popolazione.
Infine, per le disuguaglianze generazionali, la ricetta è ovvia. Si deve legare l’età pensionabile all’aspettativa di vita, rafforzando una norma già in vigore in Italia dal 2012. Così l’età della pensione cresce parallelamente alla speranza di vita, altrimenti i giovani, con il loro lavoro, dovranno sostenere anziani che vivono sempre più a lungo e lavorano per una parte sempre più breve della loro vita. Esattamente il contrario degli effetti di Quota 100. Sul debito pubblico ormai il danno è stato fatto. Il debito c’è, e rimarrà una montagna sulle spalle delle nuove generazioni. Ma almeno non rendiamola più pesante.