la Repubblica, 27 ottobre 2019
Cile, nella stazione dove i militari torturano
SANTIAGO — Aquí se tortura. La mano ignota che ha lasciato quella scritta sulla parete dei sotterranei della stazione della metro di plaza Italia voleva solamente questo: spalancare la porta sull’ultima vergogna cilena, mostrare agli occhi di chi fosse riuscito ad arrivare lì sotto, le sevizie, le torture e gli stupri commessi dalle forze armate del governo cileno.
Di giorno raggiungere questo posto dieci metri sotto terra è quasi impossibile. La fermata Baquedano è off limits. L’intera porzione della piazza lo è: la stazione è il fronte estremo della battaglia tra i carabineros, che la usano come quartier generale per controllare la manifestazione dal suo epicentro, e los encapuchados, i black bloc, che invece quest’avamposto simbolico lo vogliono conquistare. Ma di notte è tutta un’altra storia, perché quando scende il coprifuoco la città torna a respirare e allora basta ottenere da La Moneda un salvaconducto che si aprono impensabili possibilità di movimento. Il coprifuoco è come un buco nero dentro il quale tutto si smaterializza. E anche stasera Santiago ci è caduta dentro. Alle 22 in punto l’intera città è scomparsa nell’oscurità lasciando il posto a un nodo di strade e viali vuoti illuminati dalle torce sui caschi dei soldati, dai lampeggianti delle auto di pattuglia e dai fari degli elicotteri che volano bassi, più per intimidire che per controllare. Le regole sono rigidissime: chiunque venga trovato in strada senza permesso viene arrestato, chi invece ha il permesso deve spostarsi a piedi o in bici. Oppure in auto, ma tenendo accese sia le quattro frecce sia le luci nell’abitacolo. E soprattutto deve procedere senza mai fermarsi e a una velocità massima di 15 chilometri all’ora.
Per arrivare fino a plaza Italia occorre dunque avere molta, molta pazienza. Ed essere pronti ad esibire il proprio salvacondotto a cinque, sei check point lungo la strada. Ma alla fine si arriva. Ed è solo allora che si riesce ad avere un’idea chiara delle proporzioni e della violenza della battaglia che si sta combattendo a Santiago. In terra non c’è più l’asfalto, ma un tappetto fitto, compatto e scricchiolante di candelotti lacrimogeni esplosi, fette di limone, lattine schiacciate e pietre. Tantissime pietre ricavate dagli “incappucciati” devastano l’arredamento urbano di mezza città. Qua e là, agli incroci, alimentate dal vento notturno che arriva dalla Cordigliera, fumano le braci delle barricate incendiate nel pomeriggio. Dietro un carrarmato, una nebbiolina urticante e aspra vela ciò che resta delle insegne della metro. Due soldati con i fucili senza sicura sono di guardia a uno dei due ingressi. L’altro è libero. Basta sgomberare dai detriti la porta di ferro che qualcuno deve aver piegato sbattendoci contro il coperchio di un tombino e si è dentro. L’aria è irrespirabile ed è buio. La torcia dello smartphone illumina uno scenario post bellico. Tutto è distrutto, e ciò che non è distrutto è carbonizzato, dal soffitto scintillano i cavi della rete elettrica. In fondo a un corridoio s’indovinano, uno dietro l’altro, due o tre locali piuttosto angusti. La torcia illumina il muro, spunta la scritta: Aquí se tortura. È in uno di questi locali che, martedì scorso, è tornato il fantasma di Pinochet.
Il primo caso di torture di questi giorni è stato compiuto qui, su uno studente di legge, il 22enne Nicolas Luer: «Mi hanno arrestato durante la manifestazione, mi hanno legato e portato nella caserma sotterranea della stazione Baquedano. Lì mi hanno pestato. In quei momenti però ho potuto vedere che in una stanza vicina alla mia c’erano altre persone, anche loro erano legate, alcune erano appese al soffitto e venivano picchiate». Luer, che ha denunciato l’accaduto tramite una docente dell’Universidad de Chile, Myrna Villegas, ha descritto alla perfezione questi locali: «C’erano delle assi di latta a terra, e a differenza del resto della stazione era tutto incredibilmente pulito». Le sue parole erano così precise che quando il giorno dopo gli agenti della Polizia giudiziaria hanno fatto il loro sopralluogo, pur non avendo trovato né detenuti né macchie di sangue – dopo l’allarme sui social è stato tutto ripulito – sono stati costretti ad aprire un’inchiesta. Anche perché in un angolo della stanza sono state trovate alcune fascette da idraulico tagliate con le forbici. Di quelle fascette adesso non c’è traccia (sono state repertate). Ma le assi di latta descritte da Luer sono ancora là, nell’unico locale pulito in questa devastazione.
Le luci dei telefonini e il rumore dei passi hanno destato l’attenzione dei carabineros che adesso sono venuti a controllare. Non proprio gentilmente chiedono il salvaconducto. Lo leggono bene, fanno domande. Sono giovanissimi, avranno al massimo 25 anni. Lacrimano. Il gas che satura l’intero sotterraneo non permette di restare lì dentro per più di dieci, quindici minuti. Una volta usciti, gli agenti si prendono la briga di chiudere il cancello con il coperchio del tombino. È più o meno mezzanotte. Un elicottero illumina la piazza dall’alto. Da un viale arriva un gran rumore, è una colonna di camion e mezzi da lavoro, seguita da un piccolo esercito di uomini con ramazze e secchi. Il ministero ha dato ordine di raccogliere tutte le pietre da terra per evitare di “regalare” armi al nemico. Domani ricomincia la battaglia. E ricominceranno pure le torture e i soprusi dei militari. In tutto il Paese. L’ultima denuncia, arriva all’alba, e racconta di un ragazzo stuprato col manganello, nella caserma 51, la Pedro Aguirre Cerda, in periferia: «Mi hanno costretto a gridare “si, soy maricón” (si sono gay, ndr ) e ridevano – racconta –. Poi è arrivata un’agente donna e mi ha picchiato. Alla fine le sanguinavano le nocche».