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 2019  ottobre 26 Sabato calendario

Gli errori più comuni degli italiani all’estero

Se è vero, come diceva il generale Hubert Lyautey, che «una lingua è un dialetto che possiede un esercito, una marina e una forza aerea», l’italiano dovrebbe dispiegare tutti i suoi mezzi per difendersi dalla corazzata dell’inglese: noi, invece di alzare le barricate come fanno i francesi (che si ostinano per esempio a chiamare il computer “ordinateur”), ci inchiniamo alla lingua della Regina e diciamo più volentieri “call” che “chiamata” e abbiamo archiviato parole come “fine settimana” a favore di “week end”. Ma, accanto al pericolo anglofono, ci sono le minacce concrete che arrivano dal mondo virtuale: il linguaggio sempre più sincopato imposto dai social che sfocia spesso nell’utilizzo di faccine al posto dei vocaboli, sta ulteriormente mortificando la lingua di Dante. Se la situazione dal fronte interno è critica, all’estero è addirittura drammatica. LA MALEDIZIONE La maggior parte (l’84%) dei connazionali che vive in altri Paesi commette quotidianamente errori sia nella lingua scritta che in quella parlata. Così la grammatica diventa drammatica. Gli apostrofi sono una maledizione che si abbatte sul foglio un po’ per caso. E, nell’incertezza tra togliere e mettere, si sceglie sempre di mettere: così «qual è» viene scritto con l’apostrofo, un segno grafico che, messo a sproposito, somiglia ad una lacrima di cordoglio per la nostra lingua. E viene in mente la filastrocca di Gianni Rodari «L’ago di Garda»: «C’era una volta un lago, e uno scolaro/ un po’ somaro, un po’ mago/ con un piccolo apostrofo/ lo trasformò in un ago/ Oh, guarda, guarda/ la gente diceva “l’ago di Garda!/ Un ago importante:/ è segnato perfino sull’atlante». E chissà quanti laghi, dagli Stati Uniti all’Australia, ogni giorno diventano aghi… e quante volte l’una (intesa come orario) si è trasformata in Luna (nel senso di satellite). Il 52% degli italiani all’estero combatte ogni giorno con l’atroce dubbio dell’elisione, mentre per il 46% il congiuntivo è una sciagurata invenzione oppure un capriccio dei puristi. Il 39% inciampa nelle virgole e nei punti. Ricordate la lettera di Totò e Peppino? «Punto e virgola, un punto e un punto e virgola», dice il primo. «Troppa roba», replica De Filippo. «Lascia fare! Che dicono che noi siamo provinciali, che siamo tirati», insiste Totò. Nel dubbio, meglio abbondare. Accade qualcosa del genere anche nella vita di tutti i giorni: i segni di punteggiatura sono usati come addobbo grafico. E poi ci sono loro, i pronomi, mondi inesplorati per il 32% del campione. In questo campo le femministe dovrebbero fare una battaglia che al confronto il “Metoo” è niente: il pronome “le” riferito a lei è praticamente sparito dai discorsi degli emigrati. «Gli ho detto che è molto bella», ma la signora è una femmina e dovrebbe rivendicare il “le”. E poi c’è la tragica “c” che suona come una “q”. «Innocua» tradisce il suo significato e fa molti danni all’ortografia perché diventa «innoqua». «A volte» perde lo spazio, conquista un’altra “v”, e si trasforma in participio passato («avvolte»), mentre accade che «purtroppo» si scriva e si pronunci «pultroppo». PATRIMONIO I dati sono il risultato di un’indagine condotta da Libreriamo (www.libreriamo.it) in occasione della XIX settimana della lingua italiana su circa 4mila italiani che vivono fuori dal Belpaese e hanno un’età compresa tra i 18 e i 65 anni, attraverso un monitoraggio online sulle principali testate di settore, social network, blog e forum dedicati al mondo della cultura. «La lingua italiana è un patrimonio da tutelare, sia lungo lo Stivale che fuori dai confini del nostro Paese», afferma Saro Trovato sociologo e fondatore di Libreriamo. Il consiglio per chi vive all’estero è di leggere, scrivere a mano e parlare con i madrelingua. Ma, forse, prima di tutto bisognerebbe amare di più la nostra lingua e difenderla dagli attacchi che arrivano ogni giorno da tutti i fronti.