Quale Dio? E poi: forse è davvero lui origine del tutto? Ma se è origine del tutto, non è che il tutto ha finito col prendere il suo posto? Plotoni di atei lo hanno fucilato; manipoli di agnostici lo hanno ignorato. Ma lui, quel tutto che incarna, ha proseguito incessante la sua strada, come se niente fosse. Anzi ha prestato il suo volto come un attore in cerca di personaggi. Dio è marketing e quindi pubblicità; Dio è guerra con il corredo di ira e lutto; Dio è balena o leviatano; è Moby Dick; è Joyce e Proust, è Leonardo e Michelangelo.
Dio insomma è l’inspiegabile eccesso d’arte, il capolavoro o la grazia nel corpo di un comune mortale. Quante cose ci dice e non ci dice, al di là della religione e della stessa fede con cui viene abbracciato. E allora la conversazione con Gabriella Caramore può davvero iniziare da qui. Lei ha svolto per trent’anni una delle trasmissioni più intelligenti e seguite di Rai Radio 3 Uomini e profeti e ora ha scritto La parola Dio (edito da Einaudi), un libro che è anche un modo per fare i conti con le proprie convinzioni e scelte.
Hai voluto sfidare Dio?
«Ho cercato di entrare nella parola, o nelle parole, che lo declinano. Avendo per tanti anni dialogato su questo tema ho avvertito le varie sfaccettature. E poi, è stato un modo di fare i conti con una parte della mia vita».
Un libro può riempirla o testimoniarla questa vita?
«Come può anche svuotarla. Raccontare la parola Dio è stato per me lavorare sulla soglia di due mondi, quello nel quale vivo e che ha un tempo velocissimo, troppo veloce per poter anche solo pensare di dare un ordine allo scompiglio che lo sovrasta; e l’altro che è meditazione, pensiero lento, riflessivo. Ciò che ho scritto, ciò che scrivo, serve innanzitutto a chiarire a me stessa il troppo lontano o il troppo vicino delle cose che guardo».
La giusta distanza qual è?
«È difficile stabilirla. Il teologo Friedrich Gogarten diceva che siamo così immersi nell’umano che abbiamo perso il divino o, aggiungo io, il contrario: siamo così lontani dall’umano da rendere difficilissimo il rapporto con Dio. Nelle Upanišad c’è scritto che l’anima dentro il cuore può essere più piccola di un granello di riso o più grande della terra. Non c’è una sola misura».
Quando hai cominciato ad accostarti ai testi sacri?
«Ci sono arrivata tardi. Da giovane furono altre le letture, gli interessi. A otto anni lessi La capanna dello zio Tom. Compresi confusamente che c’era un mondo fuori di me, fatto di amore e di odio, che valeva la pena conoscere».
Dove sei nata?
«Le mie origini sono padovane, sono nata a Venezia l’ultimo mese di guerra quando mia madre decise di trasferirsi sulla Riva degli Schiavoni. Eravamo quattro sorelle e un padre funzionario di banca.
Non c’erano molti libri a casa, ma leggevamo quello che si riusciva a intercettare. Poi, quando divenni più grande, un prete mi chiese che letture facevo. Risposi: Dostoevskij, Sartre, Camus. Fece una smorfia e mi disse: vai anche a ballare? Sì, risposi. Allora sei marcia fino al midollo».
Ti sei sentita umiliata?
«Provavo pena per l’ottusità del prete, per la sua totale assenza di orizzonti. E non mi sorprese, allora. Si avvicinavano gli anni della contestazione.
Studiavo al liceo classico di Padova, una scuola sufficientemente addormentata. Ma di lì passò per un anno un giovanissimo professore che portò nelle nostre teste un soffio di cultura viva. Era Pier Vincenzo Mengaldo. E quei mesi trascorsi ad ascoltare le sue lezioni di letteratura italiana furono sufficienti a indicarci un percorso».
E quando arrivò il Sessantotto?
«Ero all’università. Aderii al gruppo di Potere operaio. Ma il modo in cui si praticava la politica, il linguaggio spesso fumoso e velleitario mi erano estranei. Seguivo tuttavia quel fiume di idee che avrebbe dovuto condurci al mondo nuovo».
E invece?
«Invece quando il ‘68 finì, si concluse una stagione che sembrava voler lasciare tutto in sospeso. Chi eravamo stati e cosa saremmo divenuti? Mi laureai sul giovane Lukács. L’ho conosciuto, sai. Era un omino che mi chiedeva cosa pensassi della sua vita».
Dove lo vedesti?
«Ero a Budapest con una borsa di studio. Viveva in una casa molto piccola ma bella perché affacciava sulle rive del Danubio. Sullo sfondo le colline di Buda. Ero con un altro studente quando suonammo alla sua porta. Avevo il batticuore. Ci ricevette in uno studio dove ricordo la presenza di un divano ricoperto da un tappeto. Mi fece pensare, per certi versi, alla stanza di Freud. Alle pareti i classici rilegati di Hegel, Marx, Lenin. Molta letteratura in lingua originale. Una scrivania e due poltroncine».
Il regime lo aveva confinato nella sua prigione dorata.
«Era stato il filosofo dell’ortodossia marxista e viveva la propria vita come un sacrificio in nome dell’etica. Credo che negli ultimi anni quell’ortodossia non fosse più inscalfibile. Ma io conoscevo e ammiravo il primo Lukács, quello de L’anima e le forme, del Diario, bellissimo, dove raccontò del grande amore con Irma Seidler che lo lascia e lui minaccia di uccidersi. Fu un pomeriggio insolito. A un certo punto comparve una domestica che ci servì un caffè alla turca. Mi sembrò una degna conclusione. Lasciai quella casa con un leggero senso di stordimento. Avevo conosciuto uno dei grandi protagonisti della cultura del Novecento».
Con chi facesti la tesi di laurea?
«Con Giuliano Baioni, germanista grande conoscitore di Kafka. Arrivai a Lukács non per meri motivi ideologici, mi ero invaghita della lingua ungherese. Anni dopo avrei curato una raccolta di poesie di Endre Ady, che visse in Ungheria tra i due secoli, fino alla vigilia del 1919 quando crollò l’Impero austro-ungarico».
Fu un poeta irregolare con una vita eccessiva e disordinata.
«Qualcuno lo definì “maledetto” per me fu un visionario dotato di una lingua audace che si arricchì delle letture bibliche che egli fece negli anni di formazione. Ma la Bibbia per lui fu maestra di disperazione».
E non di speranza?
«Era troppo avvolto dal clima di rovina perché potesse accogliere il messaggio positivo. La salvezza era ai suoi occhi impossibile, o quasi. La sola cosa che riteneva si potesse salvare era la dignità degli oppressi».
Dicevi di essere giunta tardi alla Bibbia.
«Ruppi l’apatia politica che provavo per quei testi, grazie da un lato a Massimo Cacciari che ne rivelò la ricchezza del linguaggio e dall’altro a Sergio Quinzio che mi ha fatto percepire per la prima volta che la Bibbia poteva essere un libro da interrogare e in cui cercare risposte adatte al nostro tempo».
Hai conosciuto Quinzio?
«Era una gran bella persona. Profondamente gentile. E anche sorprendente, considerando la sua storia privata: era stato ufficiale finanziere. Ma avvertivo in lui un eccessivo sospetto verso altre forme di fede, di pensiero, di cultura. La sua ostinazione era di vivere alla luce del suo credere».
In fondo è un atto di coerenza.
«Certo e questa era la cosa straordinaria. Ma i testi sacri dicono più di quanto siamo in grado di praticare o dire».
Possono anche dire molto meno. Pensiamo all’esperienza del fondamentalismo.
«Qui la parola viene distorta e imposta. Il fondamentalismo — che peraltro esiste anche fuori dalle religioni — si appropria di Dio per farne il principio identitario».
Come ti sei cautelata da questa insidia?
«La Bibbia è un mondo fantasmagorico, come si fa a ridurla a un fatto identitario? Se apri la Torah — tradizionalmente i primi cinque libri della Bibbia ebraica — capisci che non c’è solo la Legge a definirne il ruolo, poiché essa è soprattutto insegnamento: magistero di un sentiero nascosto nel labirinto della vita. Questo mio atteggiamento è debitore verso persone che mi hanno aiutato ad affinare la sensibilità».
Chi?
«Enzo Bianchi mi ha insegnato ad affrontare la libertà del testo; Paolo Ricca mi ha trasmesso il rispetto per la parola; Paolo De Benedetti mi ha aiutato a capire la necessità dell’interpretazione. E poi ho imparato molto da persone sconosciute e da tutti coloro che ho incrociato nei miei anni trascorsi a Uomini e Profeti ».
“Uomini e Profeti” è stata e continua a essere una trasmissione radiofonica molto seguita. Come è nato questo tuo rapporto?
«Il programma esordì nel 1982 con Enrico Filippini.
Io arrivai nel 1993 cambiando un po’ la formula e l’ho portato avanti fino al 2017. Tieni conto che la mia timidezza assoluta mi spinse a rifiutare una mia presenza radiofonica. Ero terrorizzata all’idea di condurre una trasmissione alla radio».
Come hai superato questo handicap?
«Credo che c’entri forse il fatto che Dio ha una parola che in primo luogo va ascoltata. Ecco, per me l’ascolto della parola degli altri è stato molto importante. Ascoltare è già mettere in comune una lingua, una parola, una voce».
Sei religiosa?
«Non sono tormentata dai problemi religiosi. Ma ho molto imparato dalla lettura dei sacri testi e in particolare dalla Bibbia. Due mi sembrano i tratti fondamentali: giustizia e misericordia. Giustizia non è il fare giustizia, ma portare giustizia a chi non l’ha. E quanto alla misericordia bisogna toglierle quell’odore ecclesiastico di cui è intrisa. Nel linguaggio comune parliamo di pietà o di compassione. Ma preferisco la misericordia nel senso di portare il proprio cuore dalla parte dei miseri».
Hai scritto con tuo marito, Maurizio Ciampa, “Croce e resurrezione” e poi “La vita non è il male”.
«Abbiamo dato forma nel corso degli anni a itinerari comuni anche se resta vero che la scrittura è questione intima e personale».
Hai un approccio alla religione molto legato all’esistenza, meno alla teologia.
«L’insegnamento può arrivare da teologi come Bultmann o Barth, dalla saggezza di Martin Buber o da quella di Kurt Marti. Ma la verità è che le scuole di teologia possono diventare delle gabbie. Ho amato la scrittura di Simone Weil e quella testimoniale di Dietrich Bonhoeffer, quando dice che non è tanto importante appartenere a una tradizione, ma è importante fare ciò che è giusto».
Fare ciò che è giusto non è facile.
«Occorre molta saggezza e umiltà per non sbagliare».
Ti sembra di essere a buon punto?
«Me lo auguro, ma ho l’impressione di essere su un tratto della vita che è un grande punto di domanda. Saprò viverla serenamente, senza essere troppo di peso agli altri? La vecchiaia di solito è poco generosa. Richiede molto coraggio. Vedo gli amici scomparire o magari rimbambirsi e sento di rispecchiarmi in situazioni strane. Certe volte mi illudo di vivere una seconda adolescenza e non so più bene che cosa sono; penso di essere ancora una ragazza, mentre lo sguardo degli altri ti vede impietosamente. Temo il giudizio degli altri. Ma provo a non recedere. In fondo, mi dico, sono sempre io, la stessa persona di sempre».