Sono, questi, “ cestini” di offerte a cui attingono i facebooker quando hanno bisogno di appoggiare i sentimenti a formalizzazioni pertinenti e ineccepibili dal punto di vista dell’espressione. Virali. Tanto virali da spingere le poesie di Merini lontano dall’autrice ( vale a dire dalla concretezza della sua biografia) e al contempo lontano dalle coordinate di una più tradizionale ricezione letteraria del testo. Se i “ cestini” di offerte della rete costruiscono una sorta di “canone parallelo”, la porosità sentimentale del like spinge quei versi — e in generale la poesia stessa — su uno scivolo virale dove non vige nemmeno più un criterio di valorizzazione che non sia interno alla qualità dell’empatia emotiva prodotta dal testo. Un meccanismo antico applicato a forme di amplificazione di cui in verità non sappiamo ancora tutti gli effetti. Ciò che interessa qui è che la poesia di Alda Merini è entrata in quella elettrica Hall of fame che ne ha fatto un’artista pop. Come mai? La domanda ha un suo fondamento e vien voglia di investigare senza l’ambizione altisonante di capire. Un’amica mi ripete convinta che “ Alda Merini ha trovato delle risposte sull’amore”. Ha ragione, ma non basta. Spiega la diffusione ma storna l’attenzione dalla complessità della figura che Merini ha incarnato. E si vorrebbe far pulizia: contenere la Milano dei navigli, dei barboni, dei dropout, prosciugare gli effetti dell’inesausta confessione che è stata il rapporto di Merini con i media, mettere ordine nella leggendaria dispersione del suo materiale poetico ( i versi regalati, le micro- edizioni — si va oltre il migliaio con Pulcinelefante — , le opere non rubricate), arginare la focalizzazione religiosa, anche sub specie editoriale. Si pensi con quanto amore Maria Corti provò, da squisita accademica, a operare una severa selezione nei volumi a sua cura ( La Terra Santa, Vuoto d’amore, Fiore di poesia), rassegnata infine, lei responsabile del Fondo Manoscritti di Pavia, a fare i conti con una quantità di versioni, spesso peggiorative, di uno stesso testo inviato a destinatari differenti come inedito. E invece no. Non si può contenere, prosciugare, mettere ordine, arginare. La logica ( se ha senso parlare di logica) del poeta orfico, e nella fattispecie di un poeta come Merini, è invasiva per definizione, non tollera confini, deborda, felice di debordare. Cosa evidente nei versi. Ma non meno evidente nella costruzione del personaggio: che i più conoscono tardivamente in video, senza più traccia della sua primavera ma con soffice voce da tabagista, assisa in una scena troppo ingombra, toccata d’una gentilezza inquieta, felina, bardata spesso di collane colorate, scialli, maglie a rombi, a volte sciatta, a volte invece curata, elegante. Nella bella, toccante ricostruzione biografica per mano della figlia Emanuela Carniti ( Alda Merini, mia madre, Manni Editori) registriamo tutto il macerato scompiglio degli anni in cui si ruppero i fragili ruoli di moglie e di madre e Merini precipitò nell’intermittente inferno dei ricoveri al Paolo Pini, nella “ grande cassa di risonanza” del manicomio. Ma che assordante struggimento quel sentirla urlare in fondo alle scale mentre viene portata via, che malessere assistere con occhi di figlia alla furia del delirio e al contempo rammentarla al pianoforte stillare Schubert e Chopin. C’è una donna abissale in quei suoi occhi assetati, in quel viso che tanto rammenta Maureen Stapleton nei panni di Emma Goldman. Definita “ fonte” non proprio “ attendibile” del suo calvario, è stata tuttavia attendibilissima nelle sue “fosforescenze liriche”, come le chiama Ambrogio Borsani introducendo Il suono dell’ombra. Poesie e prose ( 1953- 2009) ( Mondadori, 2010), nel suo “indicibile invasamento” (secondo il Giovanni Raboni prefatore di Testamento, Crocetti, 1988). Non sorprende l’attenzione critica che continua a suscitare la sua opera, non sorprendono le visite che ha continuato a ricevere, in vita, in Ripa di Porta Ticinese 47, non sorprende che i suoi versi siano diventati anche musica, complici il talento di Giovanni Nuti e un’interprete maestosa come Milva al teatro Strehler. Alda Merini non è passata in silenzio nel mondo e lo ha fatto spesso accanto a figure eccellenti ( da Giacinto Spagnoletti a Giorgio Manganelli e Quasimodo, da Pasolini a Guido Ceronetti, da Giulio Ferroni a Gianfranco Ravasi), figure che tuttavia non hanno mai sovrastato la sua schietta (ma schietta è dir poco) personalità di ribelle, di santa e disturbatrice della quiete pubblica e privata ( tutti sono interlocutori, anche quando sono dichiarati maestri, tutti compagni di strada, nessuno capace di essere vera guida). Sorprende invece — e qui torniamo da dove eravamo partiti — che la poetessa pubblicata da un editore di nicchia come l’amato Vanni Scheiwiller sia diventata un’icona pop: nei “cestini” del web i suoi versi appaiono, e non a caso, insieme a quelli di Pablo Neruda, Jacques Prévert, Khalil Gibran, come dire, semplificando, accanto allo stordimento della metafora, alla cantabilità esistenziale, alla ridondanza aforistica. La convivenza non fa una grinza, anche perché di saggezza ed eccesso, nonché di melodico abbandono, è fatta la lirica di Merini. Eppure qui, nel vortice di questa esperienza lirica, non c’è immagine che mai si posi con smemorata levità ( come la candida esclusività prévertiana di “ Les enfants qui s’aiment ne sont là pour personne”), semmai è un rilancio straziato e delirante come nei versi che chiudono A Michele Pierri: “... sazierò le loro bocche violente / perché non arrivino mai al nostro amore, / a dividere la nostra infamia segreta / di poeti malevissuti nel mondo”. “ Poeti malevissuti”. Anche nell’amato c’è l’interlocutore, il possibile mediatore con l’Altro, che tale non si rivela mai perché o sparisce o si sottrae, o non ha la statura. E così il solo vero destino è quello di una solitudine di volta in volta torva, convulsa e generosa. E così ecco la quantità. Ecco quello scrivere “senza confine”. Quel moto dispersivo (psicologico, esistenziale, editoriale) che la calamita digitale attrae, moltiplica e accumula. La dispersione della bellezza e del dolore è senza dubbio un tratto della sua condizione di orante in ciascuna delle chiese sconsacrate in cui ha trovato il sacro. Una dispersione che la proietta sotto le luci pop della sua Milano, non meno pop di lei, grintosa come una Janis Joplin quando cantava il suo scandalo eterno: “ Oh Lord won’t you buy me a Mercedes Benz”.
Robinson, 26 ottobre 2019
Alda Merini a 10 anni dalla morte
Alda Merini, milanese. La poetessa. La matta. La donna. La sposa. La madre. La mistica. Non è passata in silenzio nel mondo, Alda Merini. Forse l’ha temuto quel silenzio. Uscita dai lunghi anni degli internamenti, dal colloquio straziante con la follia e da quelli altrettanto sofferti di un faticoso (ma non assente) rapporto con il mondo editoriale e con il mondo intellettuale, Merini ha acquisito — direi verosimilmente a partire dagli anni Novanta — una popolarità che è tutt’oggi viva e che è venuta assumendo progressivamente una marcata sfumatura pop. E così dicendo mi trovo subito nella condizione di provare a spiegare: la popolarità lavora dentro la tradizione della fama, risuona dentro una sfida all’eterno tutta verticale, il pop filtra la fama dentro un universo valoriale tendenzialmente orizzontale, coincide con la ricchezza della devozione, del consumo sentimentale, dell’identificazione. L’ “ avventura” umana e poetica di Alda Merini ha prodotto una percezione della poesia, della saggezza poetica, e, ancor più drasticamente, del gesto poetico, assumibile senza mediazioni intellettuali. Non è un caso che sia l’unico poeta ampiamente presente negli scaffali delle librerie (e non con un libro ma con una disordinata, e ricca, sequenza di testimonianze editoriali — su cui torneremo), non è un caso che i suoi versi siano presenti nel web in ogni sorta di antologizzazione di carattere amoroso ( si va da Le 10 più belle poesie d’amore a Le più belle poesie d’amore da dedicare, da Il bacio in poesia a Poesie d’amore irresistibili).