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 2019  ottobre 26 Sabato calendario

Intervista a Francesco Acerbi

«Paura? Ho smesso di avere paura sei anni fa. Sa, ci pensavo proprio in queste ore. Ace, mi ripetevo, che fai se quella roba ritorna? La affronterò di nuovo, mi sono risposto. Vedo le cose ben chiare davanti a me e so che da un giorno all’altro potrebbe cambiare tutto». Francesco Acerbi è un gigante di un metro e novantadue centimetri per novanta chili con la parlata schietta e ruvida come pietra delle vecchie campagne lombarde che si allungano verso Milano. È nato a Vizzolo Predabissi, un comune di quattromila anime dell’area metropolitana. Da ragazzo si è fatto chilometri sui pullman per Lodi e Melegnano. Sopra i muscoli ha conservato una faccia da adolescente. Nelle ultime settimane, dopo che si è conquistato il posto di titolare in mezzo alla difesa della Nazionale a quasi trentadue anni, li compirà a febbraio, ha completato il cerchio della sua seconda vita.
La prima è finita nell’estate del 2013: visite mediche al Sassuolo durante il ritiro precampionato, analisi del sangue sballate, diagnosi di tumore al testicolo sinistro, intervento chirurgico al San Raffaele, già in campo a settembre. Non una parola con la mamma Silvia fino al rientro in famiglia, a cose fatte. Un anno prima se ne era andato il marito, Roberto, a soli 53 anni, sette infarti alle spalle, un cuore matto da quando ne aveva diciotto. Suo padre.
A novembre la malattia di Francesco si risveglia, recidiva al testicolo destro. «Chemioterapia dal sette gennaio al quattordici marzo, l’ingresso in un mondo parallelo e più vicino di quanto immaginassi che non abbandoni più, un mondo straordinario pieno di dolore e di coraggio».
Ha raccontato la sua storia in un libro, è diventato un testimonial della ricerca sul cancro, un esempio di ottimismo per chi combatte. Ancora gli scrivono bambini, ragazzi, uomini e donne di tutte le età. Una comunità di speranza e parole di affetto nella quale ciascuno si prende cura dei pensieri dell’altro e in questo modo si arricchisce. Lui si siede sul divano della sua casa all’Olgiata, non lontana dal centro sportivo della Lazio di Formello, e risponde con il computer sulle ginocchia. Poche parole semplici, senza dimenticarne nessuno. È andato con gli Azzurri tra i piccoli pazienti del Bambino Gesù, è stato l’ultimo a lasciare l’ospedale. Se non volete aspettarmi, ha detto, chiamo un taxi.
Sul divano si è accomodato anche adesso, sono le due del pomeriggio, ha finito l’allenamento e si è infilato un pigiama. Trascorre la maggior parte dei suoi giorni così. Non gioca alla playstation, guarda qualche documentario in tv, un film o una serie televisiva, mai calcio, di rado un libro, l’ultimo èL’alchimista di Paulo Coehlo. Si mette a letto abitualmente alle nove e un quarto.
Tatuaggi a parte, sono parecchi, alcuni hanno un significato, altri no, sembra il ritratto di un calciatore anomalo. Lui corregge: di un uomo sbagliato.
Non è troppo severo con se stesso?
«Credo di essere una persona solitaria e perciò difficile. È
complicato starmi accanto e penso che la colpa sia soltanto mia».
Perché?
«Non riesco a vivere in piena serenità. C’è sempre un pensiero che mi segue e non ha nulla a che vedere con quanto mi è successo. Come se nella testa mi battesse di continuo un martello. Così a volte risulto antipatico, trascinato dal vento dell’umore».
È sempre stato così?
«Guardi, credo che la malattia mi abbia addirittura migliorato, cancellando rimorsi e rimpianti. Sono diventato un osservatore del paesaggio che sta attorno a me. Ho eliminato il superfluo, le persone negative, ma anche le illusioni. Ho smesso di sognare, preferisco fissarmi dei traguardi semplici. Volevo la Nazionale, per esempio, e me la sono ripresa. Un’ansia di meno».
Come la tiene a bada?
«Calcio e casa, e basta. Cazzo Ace, mi ripeto di continuo, non pensare ad altro. Poi, certo, c’è il lavoro con lo psicanalista che mi segue dai tempi del Sassuolo. Lui sta a Modena, io a Roma. Ci diamo appuntamento il venerdì pomeriggio, con una videochat. Passiamo un’ora che mi fa stare bene».
Adesso che cosa vede nella sua terza vita?
«Il campo fino a 38 anni, qualche soddisfazione da togliermi con la Lazio, poi la panchina. Farò l’allenatore».
Un maestro su tutti da cui prendere qualche segreto professionale?
«Roberto Clerici, lo scopritore di Pirlo. Mi ha allenato alla Voluntas di Brescia. È morto l’anno scorso, troppo presto, aveva 75 anni. E poi il signor Romeo, ne ho dimenticato il cognome e chiedo scusa alla sua famiglia, che è stato il primo a credere in qualche mio talento. Avevo sette anni, mi portava su un campo di calcetto di Casalmaiocco sprofondato nella nebbia e nell’umidità e mi faceva tirare di destro e di sinistro.
Prima di essere un difensore ho fatto il portiere e l’attaccante. Potevano mettermi in qualsiasi ruolo, me la sarei cavata comunque».
Lei ha giocato 149 partite consecutive e subìto solo due espulsioni. Eppure a modo suo è stato un ribelle. A sedici anni ha lasciato gli allievi dell’Atletico Civesio di San Giuliano Milanese per tornare al paese e giocare in una squadra di amici, ha abbandonato gli studi di ragioneria al quarto anno, ha avuto un rapporto intenso ma conflittuale con suo padre, critico forse troppo severo. Queste contraddizioni come hanno influenzato il suo carattere di adulto?
«Riesco a darle soltanto una risposta: sono diventato finalmente maturo ed è il mio più grande orgoglio».
A chi lo deve?
«Mia madre mi ha educato alla bontà, mio padre mi ha trasmesso la tenacia e l’ambizione. Ho sempre avuto bisogno di un avversario per dare il massimo, l’ho idealizzato per molto tempo nella figura paterna. Dopo la morte di papà sono precipitato e ho toccato il fondo. Ero al Milan, mi sono venuti a mancare gli stimoli, non sapevo più giocare. Mi sono messo a bere e, mi creda, bevevo di tutto.
Potrà sembrarle un paradosso terribile, ma mi ha salvato il cancro.
Avevo di nuovo qualcosa contro cui lottare, un limite da oltrepassare.
Come se mi toccasse vivere una seconda volta. E sono ritornato bambino. Sono riaffiorate immagini che avevo completamente dimenticato».
Me ne dica una.
«Il primo ricordo in assoluto. Io a tre o quattro anni una sera in cucina prima di cenare, papà che mi prende da parte e mi mostra l’anello che ha comperato per il compleanno della mamma. Sulla sua faccia un sorriso di autentica felicità».
Il patron del Sassuolo Giorgio Squinzi, scomparso da poco, le è stato molto vicino, un’attenzione che lei ha ricambiato. Che tipo di rapporto avevate?
«Ci siamo capiti e rispettati. A volte ci bastava uno sguardo, altre volte un abbraccio. Non mi chieda di aggiungere altro».
Alla Lazio ha voluto la maglia numero 33, l’età di Cristo. È vero che prega spesso?
«Non spesso… ogni sera e ogni mattina. Da sempre. Una preghiera personale che dura almeno cinque minuti con la quale parlo con dio e le persone care che non ci sono più, poi un padre nostro e un’avemaria».
Pensa di essere stato, fin qui, un uomo fortunato?
«Uno come tanti. So che cosa vuol dire il privilegio ma anche finire con il culo per terra».