Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  ottobre 26 Sabato calendario

Le donne che hanno perso la testa per il potere

La crisi delle democrazie comunali e la loro trasformazione in feroci dittature nel corso del Trecento è uno dei fenomeni più inquietanti della storia d’Italia. E’ vero che parlare di democrazia è un anacronismo, perché anche nelle città dove si era affermato un governo di popolo, i più poveri rimanevano esclusi. E’ vero che la vita politica nei comuni era troppo violenta, e che un sofisticato sistema di votazioni, sorteggi e consigli era continuamente ostruito dagli scontri di fazione e dai tumulti di piazza. E’ vero che l’arrivo dell’uomo forte significò spesso una garanzia di pace, e che gli organismi rappresentativi del comune continuarono per un po’ a controbilanciare l’autorità del signore, sicché gli storici oggi tendono a proporre un’interpretazione meno drammatica della transizione dal comune alla signoria. Tutte queste considerazioni, però, gli storici del futuro potranno farle anche per i regimi di Mussolini o di Pinochet, e correranno lo stesso rischio che corriamo oggi quando esaminiamo l’avvento delle signorie dalla tranquillità dei nostri studi: di dimenticare, cioè, che per chi viveva lì e in quel momento, quei cambiamenti erano invece sconvolgenti ed epocali.
La violenza intrinseca dei regimi signorili, rivolta indiscriminatamente a oppositori veri e potenziali, è documentata fra l’altro dalla morte di tre donne che dai vertici del potere vennero sbalzate in pochi giorni al patibolo. Agnese Visconti, moglie di Francesco Gonzaga signore di Mantova, fu giustiziata nel 1391; Beatrice Cane, moglie del duca di Milano Filippo Maria Visconti, nel 1418; Parisina Malatesta, moglie di Niccolò d’Este signore di Ferrara, nel 1425. Tutt’e tre decapitate, tutt’e tre per ordine del marito, e tutt’e tre con l’accusa di adulterio. 
Il signore di Mantova volle per la moglie un processo legale, che si concluse con la condanna entro una decina di giorni dall’arresto di Agnese e del suo amante; ma i giudici, prima di cominciare, avevano ricevuto istruzioni che prevedevano già le modalità dell’esecuzione, il che la dice lunga sull’effettiva correttezza del processo. Anche il duca di Milano si prese la briga di far intervenire un giudice per condannare a morte la moglie e il presunto amante, ma senza imbastire una procedura legale. Il marchese di Ferrara, sorpresa la moglie in adulterio con uno dei tanti figli illegittimi che lui stesso aveva avuto e che allevava nel proprio palazzo – ne conosciamo ufficialmente ben ventiquattro – , li fece decapitare entrambi l’indomani senza neppure la parvenza di un processo.
Jean-Claude Maire Vigueur ed Elisabeth Crouzet-Pavan sono tra i massimi esperti del basso Medioevo italiano, cattedratici rispettivamente a Roma e alla Sorbona. Sono loro ad aver notato per primi l’eccezionalità di queste tre vicende, accadute nello stesso mondo e nel giro di così pochi anni. Eccezionalità, perché la legislazione medievale non era particolarmente repressiva e non puniva certo con la morte una banalità come l’adulterio. Esisteva il delitto d’onore, come testimonia la storia dantesca di Paolo e Francesca, ma non era poi così frequente: intorno a ogni coppia agiva una fitta rete di parenti che potevano proteggere una moglie dalla violenza del marito, e negoziare una soluzione alternativa. La separazione e il divorzio esistevano anche allora, soprattutto per i potenti. E allora, perché quei tre signori reagirono così all’adulterio delle mogli? 
Inizia da questa domanda un viaggio inatteso nei meandri delle corti del primo Rinascimento, per scoprire cosa voleva dire essere una donna nata ai vertici di quella società. A queste bambine privilegiate veniva impartita un’educazione raffinatissima: «danza, canto, buone maniere, equitazione, caccia al volo e lettura di romanzi cavallereschi». Si sposavano giovanissime, e non in chiesa: il matrimonio era un rituale pubblico incentrato sull’accordo tra due famiglie e sulla consegna della sposa dal padre al marito, senza nessuna connotazione religiosa. La donna sposata diventava padrona della casa, segregata in un ruolo tutto privato che nel caso di una principessa tracimava però inevitabilmente nell’ambito pubblico e politico, e conferiva alla moglie del signore un enorme potere, anche economico. Ma non basta, perché la politica, la guerra, la caccia costringevano il signore a lunghe assenze, nel corso delle quali l’autorità di governo veniva delegata alla persona che gli era più vicina: la moglie diventava l’alter ego del marito, e comandava a suo nome.
Alla fine, la violenza con cui quei tre signori reagirono all’adulterio delle mogli non è, banalmente, la reazione di maschi spaventati, intenti a ribadire la supremazia patriarcale di fronte all’insubordinazione femminile. L’adulterio di Agnese, di Beatrice e di Parisina è molto di più d’un tradimento privato, di quelli che nella società dell’epoca provocavano, come nella nostra, sofferenza e trauma, ma ben difficilmente si concludevano con la morte. E’ un tradimento politico, che mette in dubbio la saggezza del signore e la solidità del suo potere, giacché è stato tradito proprio dalla persona che gli era più vicina e a cui aveva delegato così tanta autorità. E allora bisogna dissipare ogni sospetto, ribadire che il potere del signore è intatto, che incarna la legge e al tempo stesso è al di sopra della legge: e che è, letteralmente, un potere di vita e di morte.