Tuttolibri, 26 ottobre 2019
La scrittrice Marieke Rijneveld si sente un maschio
Come essere umano si sente «terribilmente a disagio», va meglio quando deve interpretare «il ruolo dello scrittore». L’olandese Marieke Rijneveld, classe 1991, nome e anima ancora indecisi tra maschile e femminile (e così i discorsi), un anno fa ha aggiunto «Lucas» accanto al nome da bambina: «Per molto tempo non ho saputo se voler essere maschio o femmina. In terza elementare avevo un amico immaginario, che ho chiamato Lucas. Con il tempo l’ho perso, ma mi è sempre rimasto in testa, penso sia un bel nome. Marieke Lucas suona bene, anche se è diventato più un nom de plume. Forse un giorno vorrò che i miei amici mi chiamino Lucas. Non lo so ancora».
Quanto c’è di autobiografico nel romanzo d’esordio «Il disagio della sera»?
«Nessun libro può esistere senza verità. C’è sempre la necessità di raccontare qualche cosa di se stessi, che sia un sentimento o un fatto. Ho vissuto la morte di un fratello, io avevo tre anni, lui dodici. Non ha mai detto, né dirò mai, nulla di più su questo. Per il lettore non fa nessuna differenza conoscere la mia storia. Ma mi era chiaro fin dall’inizio che un giorno ne avrei scritto. Iniziai con i racconti alle elementari. Ho smesso per un po’, poi ho ricominciato. Mi è capitato di arrivare a cinquemila parole in un solo giorno. Ho dovuto togliermi tutto dal petto».
I genitori sono assenti, perché soffrono. È qualcosa che hai provato anche tu?
«Penso di non aver mai provato questa sofferenza da bambino. Perché non ne ero consapevole: ero troppo occupato a prendermi cura dei miei genitori. Volevo che fossero felici, che non provassero più dolore. Ma se ci ripenso ora, capisco che erano assenti a causa del lutto».
Ti senti ancora bambino?
«Sì, forse proprio perché certe cose nella mia infanzia mi sono mancate. Non sono sempre stato capace di essere un bambino e allo stesso tempo non sono riuscito a diventare un adulto. Il mio eroe d’infanzia, Roald Dahl, ne è un esempio. Anche lui era un bambino cresciuto. Penso allo scrittore olandese, Willem Wilmink. Dice: è bene nutrire il bambino in te stesso e non perderlo. Un bambino è giocoso, stupito dal mondo e spesso ha molto più rispetto per tutto ciò che lo circonda. La meraviglia ti mantiene giovane».
Il primo riferimento sessuale nel libro sono piccoli angeli nudi, le decorazioni degli alberi di Natale. La curiosità del bambino è spontanea, mentre il pudore degli adulti sembra quasi voler nascondere qualcosa.
«I grandi non parlano di queste cose, così i bambini devono scoprire tutto da soli. E questo è in parte dovuto all’imbarazzo dei genitori, in parte alla loro mancanza di conoscenza. Non si accorgono nemmeno che i loro figli stanno crescendo, che si stanno interessando ad altre cose, ad esempio al sesso. Nella Bibbia, ovviamente, ci sono alcune regole e i genitori le seguono. Ma i bambini hanno le loro opinioni, le loro idee. E iniziano a sperimentare tra loro».
Credi in Dio?
«Non dico mai di non credere più, forse per la paura infantile che lui ne sarà poi deluso o arrabbiato e mi punirà. E neanche il mio credo è svanito. In effetti, lo adoro. Ho imparato a scrivere grazie alla Bibbia, che ha storie così belle, piene di simbolismo e metafore. È meravigliosa sia nell’uso della lingua che nel significato. Ma c’è anche un lato oscuro. Quando ero bambina, la religione mi spaventava e mi isolava. Ho creduto in un Dio crudele, non amorevole».
La storia di Jas non lascia spazio alla speranza. Diresti che il tuo è un libro crudele?
«Ci sono lettori che lo trovano un libro difficile da gestire, ma no non è senza speranza. Ho una visione diversa di questo. Certo, è una storia intensa, ma c’è anche molta brama di un mondo migliore, di raggiungere la terra promessa. Tutto ciò che accade nel libro ha un significato ed è la conseguenza di una famiglia che non ha elaborato il suo dolore, una famiglia che tace. A volte la paragono a "Lingo", un gioco di parole sulla televisione olandese. Le persone che pensano ad alta voce vincono più spesso delle persone che risolvono tutto nella loro testa. È così anche nella vita. Dovresti esprimerti, condividere quel che hai dentro e raccontare le tue storie».
Quando hai cominciato a scrivere? Chi sono i tuoi scrittori di riferimento?
«Jan Wolkers, uno dei principali autori olandesi del Novecento, che ha fatto scandalo per le scene di sesso e malattie raccontate senza mezzi termini. A diciannove anni, quando ho lasciato casa ho pensato: ora tutto è permesso. Non sono uscito a festeggiare, ma ho letto lui. La poetessa Anna Enquist, che ho scoperto durante la logopedia: una delle sue opere era appesa al muro, mi dissero che se avessi fatto del mio meglio un giorno avrei potuto leggerla ad alta voce. Purtroppo non è mai successo, ma ho sempre tenuto quei versi, volevo scrivere così. E poi JK Rowling. Ho preso in prestito un suo romanzo dalla biblioteca, quando non sapevo ancora che esistessero le librerie. Ho pensato fosse così fantastico che l’ho copiato tutto su un computer perché volevo averlo con me per sempre».
In molte interviste dici di sentirti a tuo agio nei panni dello scrittore e meno in altri. Perché?
«Quel che deve fare uno scrittore mi è chiaro. Non intendo alla scrivania, ma quando mi esibisco. Quel che ti viene chiesto è intrattenere il pubblico e assicurarti che sia una bella serata. Interpreto il ruolo dello scrittore. Mi vesto sempre con eleganza. È così che dovrebbe essere, visto che parlo di questioni molto delicate. È un modo per tenere tutte le emozioni a distanza. Mi piace davvero, mi fa sentire più sicuro del normale. Il compito di un essere umano è meno chiaro e più difficile. Sento sempre di fallire un po’».
È facile parlare di te sui social network? Li usi spesso?
«Li uso molto, in particolare Instagram. Aiuta i miei libri e questa è la ragione per cui lo faccio, e ovviamente in parte anche per vanità e insicurezza. Mi piace molto essere apprezzato. Ma noto anche che alle persone che hanno letto il tuo lavoro piace seguire tutto quello che fai. Questo è il divertimento nei social media. Dai una sbirciata alla vita di qualcun altro».
Qual è il tuo rapporto con la natura?
«Sono cresciuto in una fattoria del Brabante Settentrionale, nei Paesi Bassi, circondato dalla natura e dagli animali. Ho sempre pensato che la morte di un animale fosse un evento terribile, ma allo stesso tempo estremamente interessante. Speravo di incontrare la Morte, così avrei saputo cosa aveva fatto a mio fratello. Come se fosse una persona. Uno che ho scoperto poco tempo fa diceva: "Dio è natura". Penso avesse ragione. Può fare meraviglie, ma anche catastrofi. Da bambina ne sono sempre stata affascinata, ma ne ho anche avuto molta paura».
È per nostalgia della natura che di tanto in tanto lavori in un caseificio?
«Adoro le mucche. Sono le mie migliori amiche. Mi piace stare fuori, nella natura, fare qualcosa di fisico dopo tutto il tempo passato seduto alla scrivania. Ho iniziato a lavorare lì per trarre ispirazione per il mio libro e anche per recuperare qualcosa della mia infanzia, per stare di nuovo in una fattoria. Per il romanzo ho dovuto letteralmente e metaforicamente indossare gli stivali e spalare merda di mucca. Ora ci vado meno spesso, perché sto lavorando a un nuovo romanzo, ma almeno una volta alla settimana».
Cosa racconterai nel tuo secondo libro?
«È molto diverso dal primo e questa volta scrivo dal punto di vista di un ragazzo. È bello scrivere di qualcosa di nuovo, ma al momento c’è anche molta pressione su di me, perché pubblichi qualche cosa di migliore del mio romanzo d’esordio. Perché dimostri che mi sono sviluppato, come scrittore e come persona. Per fortuna, per il momento è ancora solo per me e posso svanire in questo nuovo mondo».