Tuttolibri, 26 ottobre 2019
Sul romanzo di Isaac B. Singer “Il ciarlatano”
Il lettore scafato non può che rosolare nell’invidia al pensiero di chi, amante della letteratura ma non ancora avvezzo all’opera di Isaac B. Singer, avrà in sorte il privilegio d’imbattersi per la prima volta nelle pagine del grande scrittore polacco naturalizzato americano, perché l’ebbrezza di tale incontro si rivela inequivocabilmente una felice epifania, qualcosa che, alla stregua dei piaceri più proibiti, provoca immediata e totale dipendenza.
Fine umorista intriso di tragedia, artista celebrato in tutto il mondo, Singer è stato tante cose nella sua strepitosa carriera: uno scrittore ebreo perennemente in guerra con la cultura ebraica e un faceto favolista per bambini, un formidabile narratore in grado di perfezionare l’arte del racconto popolare vergando saghe storiche e centinaia di novelle brevi - tutte ugualmente folgoranti, non di rado virate al sovrannaturale - ma anche un cronista post-olocausto che scriveva come se quell’immane sciagura non fosse mai accaduta (almeno sino al romanzo Nemici, del ’72, dove invece la lunga ombra dello sterminio aleggia ineludibile); ha curato importanti traduzioni nonché inventato forme d’intervista innovative, cariche di quella peculiare surrealtà che fu seminale per generazioni di stand-up comedians a venire («Certo che credo nel libero arbitrio. Non ho altra scelta!»).
È stato soprattutto un maestro yiddish assurto all’Olimpo dei più grandi scrittori d’oltreoceano del ventesimo secolo grazie al semplice - e tutt’altro che scontato per un autore di fiction originariamente scritta in una lingua diversa dall’inglese - favore di una moltitudine sempre crescente di lettori innamorati dei suoi protagonisti colti e problematici ma pulsanti di vita, gente braccata dalla malinconia eppure mai doma, mai affranta, mai sconfitta: anime perse, ma non disperate.
A rinnovare la scintilla, a regalare una volta di più quel particolare e inatteso brivido della scoperta anche ai veterani della funambolica prosa di Bashevis Zinger, come lo chiamavano i lettori ashkenaziti, giunge adesso in soccorso la casa editrice Adelphi che, ingrossando il già nutrito parco di titoli dello scrittore premio Nobel nel proprio catalogo, porta in questi giorni in libreria uno straordinario inedito in anteprima mondiale, Il ciarlatano, un progetto curato da Elisabetta Zevi con la traduzione di Elena Loewenthal.
In questo romanzo dei tardi Sessanta, uscito a puntate su uno dei tanti periodici ebraici newyorkesi (il «Forverts»), si ritrova tutto il Singer migliore, quello più spumeggiante e incontenibile, il prosatore capace di allestire un’imponente impalcatura narrativa incentrata su un personaggio tipico dei suoi lavori di questo periodo: l’ebreo sbarcato da poco in terra d’America che, perennemente assetato di sesso e risposte, insegue senza sosta il primo con la speranza consapevolmente illusoria di ottenere le seconde. Lo specchio dietro il quale non è difficile scorgere lo stesso autore si chiama stavolta Hertz Minsker, un vulcanico perdigiorno di origine polacca che, al contrario della filza di conterranei giunti in USA per scampare al nazismo, invece di mettere a frutto il proverbiale fiuto giudaico per gli affari si arrabatta seducendo gonnelle e architettando svolte esistenziali tradite con disarmante puntualità. Irrequieto e bisognoso sempre di «nuovi giochi, nuovi drammi, nuove tragedie o commedie», Minsker, che pure è un erudito che ha familiarità con il Talmud, cova aspirazioni letterarie e può «recitare poesie in greco antico e in latino», sembra capace solo di attrezzare per sé e per chi gli ruota attorno piccole catastrofi pronte a detonare.
Come in una classica commedia slapstick perciò, il suo racconto procede spassoso e irresistibile tra crisi di nervi e mariti traditi, sedute spiritiche farlocche e mercanti di quadri falsi, scorni sentimentali e plateali riappacificazioni: su tutto l’inconfondibile voce di Singer che, attraverso i guai del protagonista, inanella riflessioni argute sugli uomini («c’era un limite al male. Lui, Hertz, non era molto meglio di Hitler. Hitler era solo la somma di milioni di anonime canaglie come lui. Semplice aritmetica») e sulla società («Avevano tutti trovato un mestiere, un commercio. Vivevano vite ordinate: si sposavano, crescevano dei figli, e poi un giorno avevano generi, nuore, nipotini, e furgoni guidati da altri»).
Tra sapide descrizioni di donne («Fiona aveva il collo lungo e il naso affilato, i capelli neri, lucidi come velluto raccolti in uno chignon parlava in fretta e con voce così bassa che a malapena si capiva cosa diceva. E poi, di colpo, lanciava uno strillo da uccello arrabbiato») e di uomini («Zeinvel era alto, il pomo d’Adamo sporgente nel collo lungo, il naso e il mento a punta, sempre tagliuzzato e coperto di cerotti perché non sapeva radersi»), Il ciarlatano ci restituisce tutta la grandezza di un «modernista-ottocentesco», capace di ordire trame ora lineari ora scombiccherate cadenzate da dialoghi sempre ariosi, vivi e inafferrabili. Un portento, per vecchi e nuovi lettori.