La Stampa, 26 ottobre 2019
Intervista a Lino Vairetti
In Giappone, Lino Vairetti è come Peter Gabriel, stessa popolarità, uguale alone mitico di leggenda prog. Da noi, è una rockstar per pochi, voce e leader degli Osanna, gruppo che non ha trasformato in successo commerciale quello di culto degli Anni 70. Oggi Vairetti compie 70 anni, che festeggia suonando. Sul palco sarà impossibile dargli un’età, perché avrà il volto dipinto, come sempre. Come Peter Gabriel, prima di Peter Gabriel.
Partiamo dall’inizio: Napoli, fine Anni 60.
«La musica dà alle persone la possibilità di unirsi, stare insieme. Passato il vento magico del ‘68, che da noi arriva un anno dopo, ci sentiamo oppressi da un potere che si impossessa dei nostri valori e li usa, abbassa il nostro livello di gioia per lucrarci sopra. Io studio arte e strimpello la chitarra nel giardino della scuola, dove accadono performance di ogni tipo».
Conta più la musica o la politica?
«La musica prende il sopravvento. Fondo diversi gruppi, poi con Danilo Rustici, chitarrista, creo gli Osanna. Lui è il segretario regionale del partito marxista leninista e ama Jimi Hendrix, per cui nell’assolo infila Bandiera rossa. Io amo le sculture esistenzialiste di Giacometti e scrivo testi che parlano dell’uomo che per brama di potere distrugge il mondo e la vita. Non siamo mai esageratamente politici, però critici sì».
Chi vi ispira?
«Frank Zappa. Ci fa credere in certe forme fantastiche di musica che abbandonano la forma canzone e non hanno più i tre minuti come limite. E i tempi dispari, le contaminazioni… Fu un grande matrimonio culturale tra musica e testo, poi anche con l’arte, a partire dalla copertine».
E uno studente dell’istituto d’arte ci va a nozze…
«Eh sì, un’opera rock riusciamo a farla solo nel 1973, Palepoli. La portiamo in tutta Italia, con mimi, ballerine, scenografie. Nel 1971 non abbiamo soldi e allora ci dipingiamo il volto, indossiamo una specie di saio che cuce mia madre. È il modo per diventare un’altra persona, la timidezza scompare, entri in un personaggio che racconta quell’emozione forte che hai messo nei brani».
E qui arriva Peter Gabriel.
«Nell’estate del ’72 facciamo sette concerti in Italia con i Genesis. A Genova, Peter Gabriel alla fine dello show viene in camerino e ci fa un sacco di complimenti. Non so se ci pensa quella sera, ma è certo che l’anno dopo comincia a truccarsi. Come è certo che noi le maschere cominciamo a usarle nel ‘71, i Kiss nel ‘73».
E Renzo Arbore vi definisce «Pulcinella rock».
«E ci mette in crisi, perché per noi le maschere sono picassiane, in quel momento odiamo la cultura tradizionale. Però ci fa riflettere, capiamo che l’origine napoletana può essere importante. Infatti con Palepoli ci cimentiamo in un racconto su Napoli, criticandola. Iniziamo a utilizzare il dialetto e la melodia, ed è una scelta vincente. In Giappone, dove dal 2010 siamo stati tre volte, facciamo Fuje ’A Chistu Paese e impazziscono».
Quando arrivate in Giappone?
«Con la nuova formazione degli Osanna, quella nata nel 2001 dopo che Danilo Rustici è stato colpito da un ictus e io sono rimasto l’ultimo della band originale. L’avevo aspettato per vent’anni, si era trasferito a Boston ed era tornato da poco. Giappone, Corea, poi Messico, Brasile, Cile, Francia… In Giappone sono famoso come Peter Gabriel. Ogni volta che ci torniamo faccio finta che sia un sogno, così il rientro in Italia è meno duro».
Oggi compie 70 anni. Auguri. E poi?
«Oggi suono al Giardino di Lugagnano di Sona, Verona, l’avevo promesso al proprietario del club. Poi il 30 novembre festeggio a Napoli dove sono nato, a Forcella, in uno spazio pubblico bellissimo che cerco di aiutare: ho fatto stampare una compilation degli Osanna in 250 copie, chiedo agli amici di comprarne una per finanziare la biblioteca che è all’interno, dedicata a Annalisa Durante, uccisa a 14 anni dai camorristi».
Com’è cambiata la sua Napoli?
«La Napoli di 50 anni fa era una città aperta all’avanguardia, c’era un fermento artistico straordinario. Oggi è sempre bellissima, ma si butta via, c’è il turismo mordi e fuggi di chi va nei decumani a comprare le statuine e i gadget, magari fatti in Cina. È una città meravigliosa, ma un po’ puttana».
Gli Osanna continueranno a esistere?
«Nel 2020, a cinquant’anni dalla nascita del gruppo, uscirà un nuovo album, Il diedro del Mediterraneo: il diedro, una specie di angolo a tre dimensioni, nella mia visione raccoglie tutto, la cultura e la poesia, i fenomeni politici e sociali, anche le barche che arrivano dall’Africa. Prima uscirà un album solo mio, Vi canto i miei anni 70, in cui interpreto tutta la mia storia musicale e le canzoni che ho amato. Poi su di me ci sarà un libro, di Franco Vassia, e sugli Osanna un docufilm di Deborah Farina».
Come sarà il nuovo album degli Osanna?
«In parte orchestrale, con gli archi, rock sinfonico con molta sperimentazione. Con omaggi a due grandi: Eduardo De Filippo, di cui ho musicato la poesia Io vulesse trovà pace, e Pino Daniele. Suoneremo una delle due canzoni mai uscite che Pino ventenne registrò a casa mia nel 1975. Sono stato il suo primo quasi-produttore. Poi litigammo, diceva che impiegavo troppo tempo a fargli avere successo. Oltre che un talento straordinario, aveva anche un caratteraccio».