La Stampa, 26 ottobre 2019
Biografia di padre Bartolomeo Sorge raccontata da lui stesso
«Confesso: sono figlio di un gesuita. Compiuto il noviziato, iniziati gli studi superiori, mio padre fu richiamato alle armi, salvo, tornato dalla guerra, sposarsi. La vocazione l’ho ereditata anche da lui». Ha compiuto ieri novant’anni padre Bartolomeo Sorge, il «miles» della Compagnia di Gesù che sarebbe potuto divenire papa prima di Bergoglio, se la sua giovannea sensibilità per i segni dei tempi non gli avesse precluso la via al Patriarcato di Venezia. (I sogni e i segni di un cammino, Le Chateau, pp. 151, € 15, è il suo ultimo libro).
Nato all’Elba, a Rio Marina, in tre città si è dispiegata la testimonianza di padre Sorge. Roma, alla guida di Civiltà Cattolica, la rivista che Spadolini definì «il barometro della Chiesa»; Palermo, contribuendo a edificare la «primavera» che minò la mafia; Milano, direttore di Aggiornamenti Sociali al «San Fedele», dove il Manzoni era solito «sentir Messa». Da qualche tempo è a Gallarate, ieri filosofico avamposto, oggi casa che accoglie i figli di Sant’Ignazio giunti alla terza e quarta età, aspettando l’«ora perfetta».
Novant’anni. Quale la luce, quale l’ombra della sua vita?
«La luce: la vocazione alla Compagnia di Gesù, a cui in un primo tempo non pensavo. L’ombra? Mi sentii a disagio, come direttore di Civiltà Cattolica, quando morì Paolo VI. La sua lettura profetica del Concilio, basata sul "dialogo", si distingueva dalla visione di Giovanni Paolo II, basata sulla "presenza" della Chiesa come "forza sociale". Lasciata perciò la rivista, fui inviato a Palermo. Un momento buio, non lo nascondo: dai palazzi romani, sacri e non, alla strada. Mi confortò la Bibbia, là dove Dio rassicura Giacobbe: "Io sono il Dio di tuo padre (a proposito!). Non temere di scendere in Egitto, ti farò tornare"».
Palermo, l’iniziativa-pilota dell’Istituto di formazione politica «Pedro Arrupe».
«Appena arrivato in Sicilia, mi colpì il fatto che varie persone si offrirono di sostenere economicamente il nuovo Istituto. Un politico che mi offrì quaranta milioni a fondo perduto. Beninteso li rifiutai. Era la mafia? In ogni caso, era un chiaro tentativo di condizionarci».
Che altro la colpì dell’ambiente politico siciliano?
«Andreotti. Mi domandò se Lima fosse veramente mafioso: dubitava davvero? Ne parlai con un alto magistrato di Palermo, che mi disse: "Fingendosi ingenuo, Andreotti vuole cautelarsi". Fino a questo punto? mi chiesi».
Lei nasce nel 1929 l’anno dei Patti Lateranensi. Dalla Chiesa costantiniana alla Chiesa «ospedale da campo» di Francesco...
«Il Concilio indicò due strade per la riforma della Chiesa: quella del rapporto con il mondo (ad extra) e quella della stessa Istituzione (ad intra). La prima fu fermamente seguita da Wojtyla e da Ratzinger. Bergoglio invece, nel solco di Montini, si è impegnato a rinnovare la Chiesa dall’interno: tornare al Vangelo!».
Non poche le resistenze, dai «dubia» alle accuse di eresia, alla richiesta di dimissioni.
«Su Civiltà Cattolica ho stigmatizzato la tiepidezza della comunità ecclesiale italiana verso gli attacchi, violenti e frequenti, contro il Vescovo di Roma. Non bastano più le dichiarazioni formali di filiale devozione».
Si riferisce al suo recente articolo sulla necessità di un Sinodo per la Chiesa italiana?
«Sì. Sembra che i pastori abbiano paura di compromettersi, manchino di parresìa, che è forza di verità. C’è bisogno di un pronunciamento che ribadisca autorevolmente la natura immutabile del servizio pontificale, anche se esercitato in forma nuova, come fa Francesco. Occorre poi chiarire molti altri problemi, tra i quali il comportamento sociale dei cristiani di fronte a chi (dalla mafia a Salvini) semina odio e paura, nascondendosi dietro una falsa religiosità, per irretire perfino alcuni preti».
Dal Sinodo italiano al Sinodo per l’Amazzonia. Questione princeps il celibato dei preti. È così insuperabile?
«È necessario che il celibato sussista, la devozione totale a Dio è una realtà, una testimonianza stupenda. Ma situazioni pastorali particolari potranno esigere che si modifichi una legge che è ecclesiastica, non divina; che vengano perciò ordinati sacerdoti alcuni viri probati».
L’Italia. Le sue piaghe. Un suo recente libro si intitola: Perché il populismo fa male al popolo. Quale l’antidoto?
«Il popolarismo. Sturzo lo teorizzò, anche se non riuscì a realizzarlo. Nella Evangelii gaudium Francesco, parlando della "buona politica", non fa altro che aggiornare l’intuizione sturziana».
Che cosa distingue il popolarismo?
«Anzitutto la tensione etica e ideale della politica; poi, il primato del bene comune sugli interessi particolari, da perseguire attraverso un riformismo coraggioso; infine, una visione positiva di laicità, che superi non solo il "confessionalismo" religioso, ma anche il dogmatismo "ideologico", che rendono impossibili il dialogo e l’incontro».
Tornare, dunque, a Sturzo?
«Sì, ma aggiornandolo. In un mondo globalizzato, dobbiamo tutti ("liberi e forti", credenti e non) imparare a vivere uniti rispettandoci diversi».
Il popolarismo, il cattolicesimo democratico, il suo alfiere: Moro. Lo ha conosciuto?
« Conosceva i tempi della storia politica, prevedeva e costruiva il futuro, scrutando i segni dei tempi».
Da Moro a oggi. A Renzi, alla la scissione di Italia viva.
«Peccato! Anche lui ha la sindrome del "salvatore della Patria"! Come Berlusconi e Salvini. È stato un atto di irresponsabilità e immaturità politica dividere il Governo nel momento del decollo, quando maggiore è la necessità dell’unità».
Le ideologie del Novecento smentite dalla storia. Eppure una ideologia pare in ottima salute: il sovranismo.
«Il vuoto lasciato dalla crisi delle ideologie di massa è stato subito occupato dalla ideologia individualistica, che conduce ai porti chiusi, ai muri, ai fili spinati, al razzismo, a "prima gli italiani, prima noi, noi, noi!". Non dimentichiamo il monito di Francesco: " Il sovranismo porta alle guerre"».
Padre Sorge, un’inscalfibile fedeltà a Francesco: perinde ac cadaver, gesuiticamente.