La Stampa, 26 ottobre 2019
Viaggio a Santiago sotto il coprifuoco
Il portiere di notte ha appena calato la saracinesca, per bloccare l’ingresso dell’albergo, nel rispetto del coprifuoco. Quando gli chiedo di rialzarla mi guarda strano: «Vuole uscire ora?». Gli mostro il salvacondotto firmato dal capitano dei Carabineros Pamela Sandoval Echeverria, che mi autorizza per questo viaggio al termine della notte di Santiago, e allora lui si rassegna: «Ecco il mio numero di cellulare. Mi chiami, se avesse problemi».
Tenendo bene in mente la preoccupazione trasmessa dal portiere, mi avvio lungo l’Avenida Libertador General Bernardo O’Higgins, Alameda per gli abitanti della capitale. È il viale centrale che collega il palazzo presidenziale della Moneda a Plaza Italia, cuore della protesta e della guerriglia di questi giorni. In giro non c’è un’anima, l’atmosfera è spettrale. Sul marciapiede di sinistra brucia un cumulo di rifiuti, che qualcuno ha accatastato sotto un grande albero per farlo incendiare. Il primo essere umano che incontro è un barbone a torso nudo, che sta sdraiato all’ingresso della Estación Central e urla insulti. Faccio una piccola deviazione per passare davanti all’Estadio Víctor Jara, noto un tempo come il famigerato Estadio Chile, dove durante il golpe di Pinochet vennero torturati e uccisi gli oppositori, tra cui il cantante a cui ora è dedicato. Lo squallore della calle Arturo Godoy fa venire i brividi. Doveva essere proprio così, a Santiago, durante gli spietati coprifuoco della dittatura militare.
La prima pattuglia di militari la incontro a un isolato dalla Moneda, il palazzo bombardato da Pinochet dove Salvador Allende si era suicidato. Sono quattro, in assetto da guerra, con l’elmetto calato in testa e il fucile in braccio. Per prudenza, mi viene istintivo di cambiare strada ed evitarli. Davanti alla Moneda, però, c’è un posto di blocco con i blindati. I soldati mi vedono e uno mi viene incontro. Sulla mimetica c’è scritto il nome Carrasco, la canna del fucile punta l’asfalto: «Perché sta violando il coprifuoco?». È un ragazzino, a occhio e croce potrebbe essere mio figlio. Gli mostro la tessera da giornalista che mi ha dato il Ministerio Secretaria General de Gobierno: «Salvoconducto?». Gli passo il cellulare, con la lettera del capitano Sandoval. La legge con attenzione, e mi saluta con un sorriso: «Buona fortuna». Verrò fermato altre quattro volte dalle pattuglie, e la scena si ripeterà sempre uguale. L’ultima si lascia anche fotografare in posa coi fucili, e quando chiedo loro se sanno che sono stati accusati di violare i diritti umani, alzano le spalle: «Noi stiamo solo eseguendo gli ordini, per mantenere la calma e difendere il Cile».
La partita tra le fiamme
All’incrocio con la Diagonal Paraguay, noto un paio di barricate incendiate in mezzo alla strada. Mi avvicino, e vedo che tra un muro di fuoco e l’altro c’è un gruppo di ragazzi che gioca a pallone. «Vidal passa a Messi...», come avrebbero fatto i bambini all’oratorio. Si presenta un giovane con la barba, che dice di chiamarsi Oscar Tomeo: «Siamo un gruppo del movimento sociale, protestiamo contro il coprifuoco». Gli chiedo se non hanno paura a sfidare i carabineros, e lui risponde così: «In Cile non si può più rispettare il coprifuoco, dopo quello che è successo durante la dittatura militare». Mi passa un documento, firmato da 28 gruppi che vanno dalla Comunidad Hare Krishna Copiapò al Movimiento Indigena Atacama. Chiedono le dimissioni del presidente Piñera e la convocazione di una Assemblea costituente, per cambiare la legge fondamentale e andare a votare. Gli dico che la deputata Maite Orsini, uno dei punti di riferimento della rivolta, mi ha raccontato che girano voci su torture e omicidi commessi da militari e polizia: «Voci? No amico, non sono voci. Io conosco personalmente compagne che sono state costrette a spogliarsi in caserma, e poi è inutile che ti stia a spiegare cosa è successo. Almeno 5 vittime della repressione sono state uccise dagli spari dei carabineros e dei soldati, e l’Instituto Nacional de Derechos Humanos ha denunciato torture, persone legate e abusate, qualcuno persino crocefisso per divertimento. Quali voci? Qui la repressione è sempre uguale, e deve finire».
A Plaza Italia i segni della guerriglia sono evidenti. Nell’aria si sente l’odore dei lacrimogeni che fanno ancora venire le lacrime, e per andare avanti bisogna mettersi un fazzoletto bagnato sul naso e gli occhi. Il fumo sale da un negozio di moto sventrato durante la protesta. Un gruppo di volontari cerca di spazzare via i detriti. I militari del posto di blocco che fermano le auto scherzano fra di loro: «Hai sentito? Domani tocca ai camionisti, che bloccheranno il traffico per protestare contro il costo delle autostrade», controllate in buona parte dalla compagnia italiana Atlantia. Ieri a Valparaiso è stato evacuato il parlamento. È la nuova normalità del Cile, scosso da una rivolta epocale. Ma quando, verso l’una, il vecchio portiere, che deve averle viste tutte, rialza la saracinesca dell’albergo per farmi andare in stanza, ci tiene a rincuorarmi: «Tutto bene? L’hanno presa i militari? Però deve sapere che non siamo più ai tempi di Pinochet. Questa è la protesta di una nuova generazione che vuole migliorare il Cile, e neppure i soldati vogliono tornare a quei tempi tristi».