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 2019  ottobre 26 Sabato calendario

Intervista a Angelo Curti, da sindaco a parroco

Se a celebrare la messa delle 8.30 è un ex sindaco, appare logico che ad aprire e chiudere le porte dell’oratorio di San Zeno sia un altro ex sindaco. Don Angelo Curti è stato primo cittadino di Giussago dal 1996 al 2000, «con il Ppi, mi pare, o si chiamava ancora Dc?». Il sacrista Pierluigi Valli, democristiano anche lui, ha ricoperto lo stesso incarico per due mandati a Bereguardo negli anni Novanta. Siamo nel Pavese e qui, dove i ruoli di don Camillo e Peppone sono fusi in un’unica persona, il prete non vuole essere chiamato parroco («di Bereguardo e Zelata sono solo l’amministratore parrocchiale: significa che posso dimettermi in qualsiasi momento ma non avevo l’obbligo di farlo a 75 anni, compiuti a marzo, ergo resterò fino a che lo vorrà il buon Dio») e il sagrestano ci tiene a non esser scambiato per un chierichetto. 
È un sacerdote speciale, don Angelo, e non certo perché prima della talare ha indossato la fascia tricolore ed è andato in pensione nel 1994 come responsabile di Aem (oggi A2A) per l’ammodernamento della rete elettrica di Milano. Semmai lo è per altri motivi: ha avuto una moglie per 37 anni e ha procreato due figli, che lo hanno reso nonno di quattro nipoti. «La contessa Giulia Maria Mozzoni Crespi mi chiama “il prete vedovo”», sorride. 
La promotrice del Fondo ambiente italiano, ex proprietaria del «Corriere della Sera», è una sua parrocchiana? 
«Sì. Siamo stati un intero pomeriggio a parlare di tutto, seduti nell’erba della sua tenuta agricola. A 96 anni ha ancora tanta voglia di vivere e di fare». 
«Di tutto» significa anche di Dio? 
«Gesù Cristo le va bene, la Chiesa un po’ meno. A volte viene a messa alla Zelata, senza farsi vedere. Sta in disparte». 
Come si chiamava sua moglie? 
«Gabriella Palladini. Ci sposammo nel 1971. Io avevo 27 anni, lei 25. Il fratello, padre Enzo, ordinato prete nel 1974, missionario in Giappone, annegò nel lago Biwa, vicino a Kyoto, durante una gita. Era alto un metro e 90, ci fu restituito in un’urna di pochi centimetri. Sua madre Caterina non voleva crederci: “Non è lui, tornerà”. Lo aspettò fino all’ultimo respiro. È sepolto nel paese dove sono nato. Mi pare quasi d’aver preso il suo posto». 
Come conobbe Gabriella? 
«Si trasferì nel mio paese quando aveva 18 anni, proveniente dalla Lomellina. Frequentavamo lo stesso gruppo parrocchiale. A quel tempo non volevo saperne di legami stabili. Ero un tipo vivace». 
La sua vivacità come si estrinsecava? 
«Simpatie femminili. Ne ho avuta più d’una. Finita la naia nella cavalleria corazzata, ho capito che era la donna giusta per me. Nel 1968 ci fidanzammo ufficialmente. Lavorava a Milano, in un negozio di ricambi per auto. Poi, nel 1970, fu assunta in Montedison». 
Quando si ammalò? 
«Nel dicembre 2007. Avvertì forti dolori a una gamba. La diagnosi fu terribile: sarcoma di Ewing. Negli adulti è un tumore raro, aggredisce le ossa lunghe. Fingeva di non soffrire. Fu un calvario. In quell’anno, trascorso sperando nella guarigione, posso dire che diventammo una sola carne, come dice il Vangelo. Le chemioterapie si rivelarono inutili, ma io la incoraggiavo: “Se resterai in carrozzella, ti porterò al mare. La vita è bella anche così”. E lei l’aveva accettata». 
Invece sopraggiunse la morte. 
«Il 9 dicembre 2008, festa di san Siro. Aveva intorno tutta la famiglia. Sapeva di essere alla fine, ma era lei a confortare noi. Se n’è andata come un passerotto». 
Suppongo che non parlaste mai della decisione di farsi prete. 
«È così. Sarebbe equivalso a dirle che stavo per rimanere vedovo. Ma due giorni prima del decesso accadde un fatto inspiegabile. Mentre ero seduto in corridoio, assorto nei miei cupi pensieri, comparve una signora in camice bianco. Mi chiese: “Lei è il marito? Posso entrare?”. Feci un cenno di assenso. S’intrattenne per alcuni minuti al capezzale di Gabriella. All’uscita mi disse: “Non si preoccupi. Vedrà che non soffrirà. Il Signore vi aiuterà. Lei starà bene”. Frastornato, pensai: ma che cosa sta farneticando questa qui? Cercai di capire chi fosse, però alla clinica Humanitas nessuno la conosceva, tanto che conclusi: be’, esistono anche gli angeli. A due mesi dal decesso, mentre ero a casa di mia figlia sul Gran Paradiso, squillò il cellulare: era lei. Un’avvocata penalista con studio in piazzale Loreto a Milano, una volontaria. Le chiesi: perché infilò solo la porta della camera 4, dove c’era mia moglie? Mi rispose: “Sentivo di dover entrare lì”». 
Che cosa le fa credere che esistano gli angeli? 
«Sono nato in una famiglia religiosissima. La prima catechista è stata mia madre. È ancora viva, ha 97 anni. Io ne avevo 3 quando m’insegnò la preghiera che ancora oggi recito ogni sera prima di addormentarmi: “Gesù, Giuseppe e Maria vi dono il cuore e l’anima mia”. Da lei e da papà, un contadino, ho imparato anche l’amore per i poveri. Da bambino chiedevo alla mamma, piangendo: ce l’hai il pane da dare ai viandanti senza cibo? Se passavano in mia assenza, li rincorrevo per portarglielo». 
La politica fu il suo modo per continuare ad aiutarli. 
«Non diceva Paolo VI che è la più alta forma di carità? Ma diventai sindaco solo per sostituire Paolo Ferrari, morto d’infarto a 48 anni durante il cenone di san Silvestro del 1995. Ero il suo vice». 
E l’altra vocazione come maturò? 
«Morta mia moglie, mi dedicai all’assistenza degli anziani: visite nei ricoveri, lavori domestici, disbrigo di pratiche burocratiche. Ma di notte non riuscivo a dormire. Pregavo il Signore: che cosa vuoi da me?, dimmelo e io lo faccio. Ne parlai con mio fratello prete, don Armando, parroco a Binasco, che m’indirizzò all’Istituto superiore di scienze religiose. Decisivo fu l’incontro con l’allora vescovo di Pavia, Giovanni Giudici, già segretario del cardinale Carlo Maria Martini. Fu lui a ordinarmi prete, il 14 giugno 2014». 
I suoi figli come la presero? 
«Aspettai da settembre a Natale prima di dirglielo. Gli facevo credere che andavo in seminario per cultura personale. La sera tornavo a dormire a casa per non insospettirli. Ora sono tutti felici. Le nipoti mi mandano sms: “Oggi ho il compito di matematica. Prega per me, nonno don Angelo”. Io rispondo: studia e prega, anzi prima prega e poi studia». 
E per lei fu dura tornare sui libri? 
«Mi andò bene: per la laurea in Scienze religiose all’epoca bastavano tre anni di teologia, oggi sono cinque. Diedi 34 esami. Più la tesi». 
Che cosa ricorda dell’ordinazione? 
«Un’emozione fortissima. Il mio paese natale, Turago Bordone, una frazione di appena 600 abitanti, stava dando alla Chiesa il quinto sacerdote dal 1980. Un lembo di terra benedetto da Dio». 
Se non avesse due figli e quattro nipoti, si sentirebbe meno completo? 
«Meno felice. Non pensavo che fosse così bello fare il prete. Sei in relazione continua con la gente. Durante la confessione, che io chiamo riconciliazione, colgo al volo i dilemmi del penitente. Problemi dei figli? Li conosco. Problemi di morose? Li conosco. Problemi di lavoro? Li conosco. Problemi politici? Li conosco. L’essere stato sposato crea occasioni di dialogo. Sono finito al pronto soccorso. L’infermiera: “Reverendo, l’accompagnatrice non può entrare”. E io: è mia figlia. “Ma come?”. Poi le spiego». 
È stato male? 
«Uno dei tanti accidenti dell’età. Ero prete solo da sei mesi quando, senza infarto, mi applicarono cinque bypass al cuore. In rianimazione supplicavo Dio: “Mi hai appena chiamato al sacerdozio e già mi vuoi portare lì? Avrei così tante cose da fare...”. Al risveglio credevo che fossero trascorsi cinque minuti. La dottoressa rideva: “L’è cinq dì ch’al parla al Signùr!”. Vede? Mi ha lasciato qui». 
Il celibato sacerdotale va mantenuto? 
«Sono in difficoltà a rispondere. Di sicuro un prete ammogliato sarebbe meno libero. Guardi la mia agenda di questa settimana». (Mi mostra un calendario da tavolo zeppo di annotazioni). 
Gli scandali sessuali nella Chiesa diminuirebbero se i preti si sposassero? 
(Sospiro). «Non credo. Pensi al numero dei pedofili coniugati. Un’infinità». 
Ci sono preti cattolici di rito orientale ordinati dopo le nozze. L’arcivescovo Cyril Vasil’, segretario della Congregazione per le Chiese orientali, è figlio di un sacerdote. Una disparità di condizione incomprensibile, non crede? 
«Le Chiese sono fatte così: di uomini». 
Per non parlare di papa Silverio, figlio di papa Ormisda. Entrambi santi. 
«Lo stesso san Pietro, primo pontefice, era sposato. Solo il concilio Lateranense II del 1139 dichiarò invalido il matrimonio di presbiteri e religiosi». 
Crede che questa norma decadrà? 
«Penso di sì». 
Dai suoi tempi è cambiata la gerarchia dei peccati e delle relative penitenze? 
«Le pongo io una domanda: calpestare intenzionalmente le formiche è peccato? Un mio collaboratore le spostava con la paletta per paura che le schiacciassi quando entravo in cortile con l’auto. Di recente si è suicidato. Salvi le formiche e uccidi te stesso? Ogni uomo è un mistero insondabile. Possiamo solo pregare». 
Per padre Arturo Sosa Abascal, preposito generale della Compagnia di Gesù, il diavolo «non è una persona». Il gesuita papa Francesco scrive: «“Il Maligno” indica un essere personale che ci tormenta. Non pensiamo che sia un mito». 
«E neppure un simbolo. Per scacciare Satana e far entrare nel tuo cuore un pezzetto di Dio, devi togliere un po’ di Io». 
Si sente ancora sposato con Gabriella? 
«Ah sì, tant’è che porto la fede nuziale al dito. È come se fosse qui in questo istante. Chiudo gli occhi e la vedo».