Corriere della Sera, 26 ottobre 2019
Le difficili alleanze elettorali
Sarà anche vero quel che ha tenuto a ricordarci il presidente del Consiglio e cioè che («detto con tutto il rispetto») l’Umbria ha un numero di abitanti pari a quello della provincia di Lecce, e che per questo è quasi impossibile che il voto amministrativo metta in seria difficoltà il governo. Però il passaggio elettorale di domani avrà ugualmente qualche non trascurabile ripercussione sul prosieguo della legislatura. Nel senso che, se verrà premiato il rassemblement di destra-centro, l’esecutivo avrà – come è ovvio – una vita meno tranquilla; e se invece prevarrà la neonata coalizione sinistra-M5S saranno leghisti e loro alleati, come è altrettanto evidente, a dover mettere nel conto tempi assai più lunghi prima che si presenti l’occasione di una possibile rivincita.
Ma qualcosa la campagna per le elezioni in Umbria lo ha pur messo in luce. Ad esempio quanto la ricostruzione del centrodestra sia ad uno stadio più avanzato rispetto all’edificazione dell’alleanza tra Pd e 5 Stelle. I partiti di Zingaretti e Di Maio sembrano infatti non essersi resi conto di come, una volta imboccato il sentiero della coalizione, sarà impossibile tornare sui propri passi. Anche nel caso di una sconfitta nelle elezioni umbre. Di qui alla prossima estate infatti si voterà con diversi sistemi tutti maggioritari in una gran quantità di regioni e comuni, e – eccezion fatta per alcuni casi particolarissimi – un mancato accordo tra i due principali partiti di governo verrebbe vissuto dalle rispettive aree politiche come una resa alla destra, ancor prima di combattere.
Tanto varrebbe che i due partiti prendessero atto di questa realtà che darà luogo a innumerevoli complicazioni. E provassero ad evitare di essere costretti – mese dopo mese – a cercare all’ultimo momento candidati che vadano bene a entrambi. Candidati che, come è accaduto all’albergatore umbro Vincenzo Bianconi, non avrebbero quasi neanche il tempo di farsi conoscere dai potenziali elettori. Pd e M5S possono ovviamente prendere la decisione di non coalizzarsi nelle elezioni amministrative che si terranno nel primo semestre 2020 (del resto, ai tempi del loro governo, leghisti e pentastellati, mai si presentarono assieme). Ma devono saper fin d’ora che ogni eventuale sconfitta verrà messa nel conto dell’incapacità o peggio dell’ignavia dei loro gruppi dirigenti.
Se invece decideranno – anche sulla base di quest’ultima considerazione – di procedere uniti, dovranno tener conto di una questione fondamentale. La coalizione di governo antisalviniana è composta da quattro partiti, quello di Zingaretti e quelli di Renzi, Speranza e Di Maio. I primi tre hanno avuto occasioni di governo anche nelle amministrazioni regionali, il M5S soltanto nelle città. Perché i Cinque Stelle accettino di muoversi a sostegno di un candidato del Pd, o di Italia viva o di Leu, che abbia buone possibilità di successo, ad esempio il governatore uscente dell’Emilia Romagna Bonaccini (oppure quelli, con minori chance, di Marche, Toscana, Campania, Calabria, Puglia) sarebbe necessario che la sinistra offrisse pari disponibilità per personalità provenienti dalle file grilline. Altrimenti si dovrebbe andare ogni volta alla ricerca di candidature «civiche» che spesso non offrono garanzia di tenuta né sul piano politico né su quello elettorale. Nessuna formazione può lasciarsi considerare in partenza gregaria delle altre.
Qualora decidessero di procedere assieme, i quattro partiti della coalizione, tutti e quattro, dovrebbero sentirsi obbligati a trovare punti di incontro tra le loro precedenti esperienze per poi cercare candidati che portino voti ma che creino anche tra loro una qualche armonia. E perché ciò accada, l’accordo tra le quattro forze non può che essere globale e preventivo. Perché? Per il fatto che solo trovando un’intesa che valga per tutte (o quasi) le regioni e per tutte (o quasi) le città che andranno al voto, ogni componente della coalizione di governo potrà trovare la motivazione a giocare con impegno l’intera partita. Altrimenti ci sarà sempre qualcuno – ieri in Umbria è stata la volta di Renzi – che non si presenterà all’appuntamento.
Restiamo su Renzi. È chiaro che Italia viva è la componente più recalcitrante ad una sorta di patto stabile con Pd, Leu e M5S: il movimento renziano si è dato come missione quella di intercettare una rilevante parte di elettorato proveniente dal centro e dalla destra. Un’impresa ardua già di per sé. Ma sarebbe ancora più problematica nel caso il senatore di Rignano si alleasse stabilmente con i seguaci di Grillo e con una sinistra peraltro a lui ostile. Tuttavia Renzi resta pur sempre nel governo ed è costretto a puntellare la legislatura, ragion per cui vale la pena per i soci di maggioranza provare a coinvolgerlo anche in sede locale. Chiaro dunque che da adesso in poi a Pd e M5S non sarà sufficiente trovare un’intesa tra loro, ma la dovranno estendere al pur docile partito di Bersani e Speranza e a quello riottoso di Renzi. Missione complicata. In compenso la scissione renziana dovrebbe offrire una formidabile opportunità per la verifica di un teorema assai diffuso in anni recenti tra i politologi di sinistra. Secondo tale teoria, il Pd avrebbe perso un gran numero di elettori rifugiatisi tra i Cinque Stelle o nell’astensione a causa del «deragliamento» del treno riformista (il termine è stato usato dal prodiano Franco Monaco) di cui sarebbe stato «artefice» Matteo Renzi. Turbati dal metaforico incidente ferroviario, tali elettori avrebbero cercato rifugio tra i Cinque Stelle o nell’astensione. Strano, si potrebbe osservare, che quei fuggitivi non abbiano riparato, già alle elezioni del 2018, nelle carrozze di Leu. Ma – si disse all’epoca – quei vagoni erano stati allestiti troppo in fretta per essere in grado di attrarre gli elettori in fuga da Renzi. Ma adesso che Renzi se n’è andato e il partito di cui fu segretario ha ripreso a viaggiare sull’antico binario, dovremmo assistere alla scena di passeggeri che affollano le stazioni nell’ansia di salire sul treno zingarettiano. Sia nelle elezioni politiche (quando verranno) sia in quelle amministrative. A cominciare da subito, dalle stazioni che furono rosse di Perugia, Terni, Orvieto, Todi. Dovesse accadere, per il Pd sarà certamente più agevole trattare in vista delle complicate alleanze di cui si è detto.