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 2019  ottobre 25 Venerdì calendario

Torna in libreria “Toro” di Jean Cau

Nell’estate del 1959 Ernest Hemingway andò in Spagna per assistere al duello fra il più grande torero del secondo dopoguerra, Luis Miguel Dominguín, e il più giovane Antonio Ordóñez, figlio d’arte nonché suo cognato, avendone sposato la sorella Carmen. Per il primo si trattava di un ritorno sulla scena a sei anni circa dall’averla abbandonata; per il secondo l’occasione per stabilire che in quell’arco di tempo le cose erano cambiate e adesso il migliore era lui. Le corride che li avrebbero visti impegnati erano chiamate mano a mano: due toreri soltanto, tre tori a testa, nessun terzo incomodo a rovinare lo scontro, la piazza, la fama.
Quell’estate Hemingway stava per compiere sessant’anni e il suo ultimo libro, Il vecchio e il mare, risaliva a quando Dominguín aveva smesso di calcare l’arena. Psicologicamente erano entrambi nella stessa situazione: volevano rimettersi alla prova, temevano di non essere più all’altezza di ciò che erano stati, non sapevano però fare altro, ovvero l’uno scrivere, l’altro toreare. «La cosa peggiore che possa accadere a una persona è perdere il centro del proprio essere, ciò che veramente è. Ritirarsi è il peggior verbo che conosca. Lo si faccia per libera scelta o per forza, rinunciare a ciò che si fa – ed è ciò che si fa a rendere un uomo quello che è – significa avviarsi alla tomba». Era una frase di Hemingway, ma avrebbe potuto scriverla Dominguín.C’erano anche altri, come dire, elementi in comune. Morte nel pomeriggio, uscito quasi trent’anni prima, era stato una sorta di Iliade della tauromachia e scrivere sullo stesso argomento rischiava, per Hemingway, di essere soprattutto una sfida con sé stesso, più che con nuovi, possibili rivali. Quanto a Dominguín, gli capitava di rivivere all’incontrario quanto avvenuto un quindicennio prima, quando al suo posto c’era Manolete e lui era l’astro nascente che lo voleva offuscare. Per difendere il suo diritto a essere il più grande, Manolete allora ci aveva lasciato la vita e ora la storia sembrava presentare il conto, con Ordóñez nel ruolo che a quel tempo era stato il suo.The Dangerous Summer fu il titolo che Hemingway diede al suo libro-reportage, ma per quanto Dominguín la visse così pericolosamente da ritrovarsi più volte squarciato dalle corna dei tori contro cui combatteva, a morire incornato dal toro della scrittura fu proprio Hemingway. Man mano che andava avanti nella stesura, si accorse che non riusciva più a padroneggiare la materia: non c’era un ordine, una misura, gli sfuggiva l’armonia dell’insieme, la felicità espressiva che si tramuta in grazia. Con Life, la rivista che avrebbe dovuto pubblicarglielo in anteprima, si era accordato prima per un testo di 10mila parole, poi portato a 40mila. Si ritrovò ad averne scritte più di 100mila e quando cercò di accorciarlo si accorse che non ne era più capace: tutto quello che da solo riuscì a eliminare furono 530 parole... Ci volle l’aiuto di un amico fidato, A.E. Hotchner, per sfrondare il testo di una metà abbondante e fu il suo ultimo libro pubblicato in vita. Uscì nel 1960 ed Hemingway si sparò nel 1961.Trainato da tre successivi numeri di Life, comunque The Dangerous Summer riportò i riflettori editoriali sul mondo della corrida: così, in Francia, Gallimard affidò al trentaseienne Jean Cau una sorta di controcanto sullo stesso tema. Scritto a tambur battente, nel 1960, Les oreilles et la queue uscì l’anno dopo, qualche mese prima del suicidio di Hemingway; il premio Goncourt, dato sempre quell’anno al suo La mort de Dieu, fece di Jean Cau l’autore francese del momento.L’anno dopo arrivò la traduzione italiana per Longanesi, quel Toro che ora Iduna riporta in libreria (pagg. 283, euro 20), con una spumeggiante introduzione di Carlos D’Ercole che è anche un omaggio al nuovo idolo della tauromachia, quel José Tomás che è oggi ciò che Dominguín e Ordóñez erano stati ai tempi di Hemingway. Toro, proprio perché pubblicato sulla scia di The Dangerous Summer è però un curioso quanto interessante caso di rivalità artistica su cui vale la pena soffermarsi. Strano, ma vero, per uscire in Italia il testo di Hemingway dovette aspettare un quarto di secolo (Un’estate pericolosa, Mondadori, 1986), come se la morte del suo autore, le vicissitudini editoriali del libro, l’uscita, appunto, di quello di Cau, e poi del memorabile Volapié di Max David, avessero in qualche modo sterilizzato l’argomento. In Toro, del resto, Cau mise del suo nell’opera di demolizione, così come fa ogni stroncatore degno di questo nome di fronte a un monumento letterario troppo ingombrante.Di là dalle critiche nel campo specificatamente taurino, l’incompetenza di Hemingway in materia, accompagnata da un eccesso di sufficienza nei giudizi, su Manolete in primis, che lasciano un po’ il tempo che trovano, nel suo personale mano a mano Cau aveva buon gioco nel mirare al bersaglio grosso dello stile: «Uno dei suoi trucchi favoriti, tra mille, consiste nel parlare con sovrabbondanza inaudita di particolari, della tal birra o del tal vino, dei gamberi che ha sgusciato eccetera. Per fare vero». Eguale trattamento era riservato all’uomo: «Il suo machismo è una truffa. Vento e letteratura, aria condizionata, deodorata, disinfettata e fredda e falsa come il temperamento di una pin up. Dimenticavo: Don Ernesto è afflitto da uno sguardo abominevolmente sornione, cattivo e furbo».Di passata Cau notava anche un altro elemento, l’americanismo come cartina di tornasole dell’incapacità di comprendere la realtà della corrida, fenomeno specificamente iberico, con propaggini, e qui parlava pro domo sua, ma in modo plausibile, «nel mezzogiorno pirenaico della Francia», frutto cioè di storia, geografia, alimentazione persino: «Ogni arte è sacra, ma non abbiamo tutti gli stessi dèi». È un qualcosa su cui, nella sua introduzione, Carlos D’Ercole, che è nato a Madrid, passa sopra con modestia, ma non è un caso che la scriva per tre quarti in spagnolo: da italiani possiamo anche essere degli aficionados, ma ci sfuggirà sempre quella sua essenza così particolare proprio perché nazionale.Confesso che quando da ventenne hemingwayano lessi Toro, le critiche di Cau mi indignarono, per quanto ne avvertissi, o forse proprio perché ne avvertivo, la giustezza. A nessuno piace vedere il proprio mito fatto a pezzi, in specie quando la sua caricatura va prendendone il posto e a metterla in scena è il mito stesso, lo scimmiottare ciò che si era stati e che non sarebbe più tornato. Da trentenne post-hemingwayano, continuai a tenermi lontano da Un’estate pericolosa, una volta tradotta. Avrei continuato a farlo se una segnalazione di Goffredo Parise non mi avesse convinto del contrario, perché se Jean Cau aveva ragione, quell’Hemingway lì, così disperatamente intento a scrivere un poema omerico che non riusciva più a finire, non aveva torto. Nonostante tutto, il suo era un bellissimo libro e basta questo brano, tipicamente, felicemente hemingwayano, a dimostrarlo: «Il vino era buono come quando avevi ventun anni e il cibo meraviglioso come sempre. C’erano le solite canzoni, e qualche bella canzone nuova, che venivano riprese da pifferi e tamburi. Le facce un tempo giovani erano vecchie come la mia, ma nessuno aveva dimenticato com’eravamo. Gli occhi non erano cambiati e nessuno aveva messo su pancia. Non c’erano bocche amareggiate, qualunque cosa avessero visto gli occhi. Le pieghe amare intorno alla bocca sono il primo segno della sconfitta. Nessuno era stato sconfitto».Anche Toro è bellissimo, disincantato e cinico quanto basta, privo di folclore, ma colmo di ammirazione per la figura chiamata a rappresentare non uno sport, ma un’arte: «Combattere creando, se possibile, la bellezza, il regno assoluto dell’uomo sull’animale. Ammirate la follia che lo spinge ad affrontare il toro con un pezzo di stoffa e salutate il suo desiderio di far nascere la bellezza con due ingredienti: una bestia e uno straccio». Detto in altri termini, la tauromachia è una sorta di «canto profondo, il toro che sfiora il fianco del matador e passa miracolosamente è il compagno e la vittima di un’operazione poetica dalla quale sorge la bellezza».Con Toro Jean Cau mise le fondamenta a quello che in Le scuderie dell’Occidente chiamerà «un mondo chiuso, con i suoi odori, i suoi rumori, la sua eterna estate, i suoi colori e il suo linguaggio sacrificale. Rotonda è l’arena, come conviene alla perfezione. Rotonda e profonda. Cratere nel cui focolare la bellezza e la pagliacciata, il coraggio armato di sproni o la paura verde stanno per essere pestati in un brodetto delizioso e forte nella bocca ch’esso infiamma». Lì, «una società si organizza e si adorna per la bellezza e per la morte», ed è una società virile, «il senso perduto dell’adolescenza, prima che le donne si insinuassero nella nostra fortezza (con il pretesto dell’amore!), come le avversarie... non dico le nemiche, ma le avversarie, le altre... Con la cuadrilla, con i matadores, siamo tra noi, tra uomini». Il machismo di Hemingway riscritto e sottoscritto da Cau.