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 2019  ottobre 25 Venerdì calendario

Erdogan Sultano del Medio Oriente

Ci sono molti aspetti interessanti nella questione turco-siriana. L’attacco turco, con interventi aerei laddove volano solo le mosche sui cadaveri, interventi di carri armati e artiglierie e circa 11.000 soldati sul campo, è stato guidato dalle formazioni del cosiddetto Libero Esercito Siriano. Una sigla di convenienza che copre i militari disertori siriani ancora in armi e l’armata di milizie pagate dalla Turchia.
Si tratta di quei combattenti “moderati” un tempo definiti patrioti, di mercenari, di facinorosi, estremisti islamici e tagliagole finora protetti, armati, addestrati e finanziati dagli americani e dai turchi oltre ai vari emirati e stati arabi. Il collante tra le forze armate turche e questi “liberi combattenti” è l’avversione per il regime siriano e per una qualsiasi autonomia curda. L’operazione turca, cinicamente chiamata “Sorgente di pace”, ufficialmente tende a stabilire una “fascia di sicurezza” al confine tra Turchia e Siria da Manbij fino al confine con l’Iraq. Si vorrebbero così eliminare gli ultimi presidi del famigerato Isis e i cosiddetti “terroristi” dell’Ypg, le milizie curde che i turchi ritengono uno dei bracci armati del Pkk, il” partito dei lavoratori del Kurdistan” riconosciuto come organizzazione terroristica anche da Usa, Ue, Iran e Nato. In questo territorio, i curdi, aiutati dagli americani, avevano eliminato l’Isis e avevano ricevuto dagli americani, e non solo, solenni promesse di poter costituire un’entità autonoma curda nel quadro della prevista spartizione della Siria. Se ciò fosse avvenuto, si sarebbe trattato della seconda autonomia curda nell’area dopo quella del limitrofo Kurdistan iracheno. Anzi, sarebbe stato molto di più e già i curdi siriani parlavano di Stato indipendente da inserire in una “confederazione curda”. Questa possibilità, ancorché onirica nel quadro dell’intero scacchiere geopolitico mediorientale, non può essere accettata da nessuno degli stati confinanti. L’Iraq dovrebbe affrontare la secessione del Kurdistan iracheno mentre l’Iran e la Turchia dovrebbero affrontare la richiesta di separazione o quantomeno di autonomia curda sui propri territori. Tuttavia, tale rischio è più teorico che pratico. In Medio Oriente nessuno vuole uno Stato curdo, in nessuna forma. E nel mondo i curdi, così come tutti i “popoli senza Stato”, non contano niente. Le organizzazioni internazionali dove si discute di monete, finanza e sicurezza sono gli Stati. Lo stesso principio di autodeterminazione sancito dalla carta delle Nazioni Unite ha limitazioni di applicabilità che variano a seconda della volontà degli Stati membri. Fino a quando questo sistema non cambia, tali popoli non hanno un riconoscimento giuridico internazionale, devono sottostare ai regimi degli stati in cui sono dislocati e sono costretti a ricorrere alla ribellione anche armata per diventare autonomi. Lo stesso Kosovo, dove la ribellione sollecitata e aiutata con una vera e propria guerra tra Stati (membri della Nato e Serbia) ha portato alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza, non ha ancora il riconoscimento dell’Onu. Ma il suo esempio ha alimentato tutte le altre rivendicazioni regionali con gravi ripercussioni politiche e sociali in molti Stati. Nel caso dei curdi, nemmeno loro sono convinti della formazione di un proprio Stato in cui riunire i curdi iraniani, iracheni, turchi e siriani. Lo stesso Ocalan, leader storico del Pkk, ha modificato il proprio modello politico optando per il “municipalismo libertario” teorizzato dallo statunitense Murray Bookchin e basato sulla democrazia diretta esercitata da assemblee popolari in villaggi, paesi, quartieri e città federate. Per i turchi e per altri, questo modello è ovviamente perfino più pericoloso della secessione formale. Inoltre, nei secoli di dipendenza da altri Stati, i curdi hanno adottato il “senso dello Stato” dei Paesi in cui si trovano; si sono adattati ai costumi e alle leggi locali e si sono integrati socialmente al punto che proprio in Turchia la maggioranza dei curdi si sente “turca”; i matrimoni misti, le relazioni interpersonali e di vicinato con i turchi sono ottimi e soltanto un regime di polizia che individua i pericoli per lo Stato secondo l’etnia o la religione tiene accesa la fiamma dell’odio. I curdi hanno però mantenuto forte la struttura familiare e di clan con relativi legami di fratellanza, ma anche con conflitti e faide: questa frammentazione interna ostacola qualsiasi progetto di unificazione politica. Infine, per essere sempre stati sottomessi a potenze imperiali e regimi autoritari, essi non hanno alcuna cognizione democratica: esattamente come non ce l’hanno i loro dominatori.
L’azione militare della Turchia, quindi, è rivolta contro i curdi e di certo ne vuole negare qualsiasi velleità politica anche se sostenuta dai potenti, come gli Usa, e dai falsi idealisti che gridano al tradimento di un popolo senza patria. Ma non si tratta solo di questo. Erdogan aveva già avuto il via libera dagli americani, dai russi, dalla Nato e dall’Iran per la creazione di una fascia di sicurezza al confine siriano: tutti, compresi i curdi, sapevano che questo avrebbe comportato il loro sfollamento. Ma il grande obiettivo di Erdogan è l’acquisizione del primato politico-militare in Medio Oriente non tanto agendo come vassallo e sceriffo degli americani, ma come entità politica autonoma. E infatti solo la dimostrazione, almeno formale, di autonomia rispetto alle grandi potenze può conferirgli la credibilità necessaria a gestire l’egemonia in tutta l’Asia minore. La Siria di Bashar al Assad era da tempo nel mirino dei turchi che per primi hanno fomentato la rivolta in Siria, hanno riconosciuto i ribelli come unici e legittimi rappresentanti della Siria e hanno internazionalizzato il conflitto. Il paese ridotto a brandelli sembrava una preda che da sola si sarebbe ficcata nella rete dei cacciatori di frodo. Usa, Europa, Nato, Israele, Turchia, Iran, Iraq, Giordania, Libano e altri Paesi arabi e mediorientali avevano già fatto i propri calcoli per spartirsi le spoglie del regime di Assad con la “cantonizzazione” o “balcanizzazione” della Siria. L’intervento della Russia, che pure ha più volte definito “spendibile” il traballante Assad, ha sparigliato le carte sul campo, permettendo al regime di sopravvivere e anzi di riassumere il controllo di gran parte del proprio territorio. La Turchia si è vista improvvisamente sfuggire l’occasione di appropriarsi di parte della Siria e assumere un ruolo egemone nell’area ed ha reagito di conseguenza. L’ha fatto in termini militari non tanto e non solo perché fosse necessario un atto di forza, ma per assecondare i generali che lui stesso aveva messo alla porta nella politica e nella credibilità operativa con il presunto colpo di stato del 2016 che gli ha dato modo di effettuare una mastodontica purga negli apparati militari e in altre strutture civili. La conquista della cosiddetta fascia di sicurezza è dunque l’obiettivo minimo, iniziale, dell’espansione turca. Quello che consente ad Erdogan di ricattare tutti e di pretendere ancora più di prima l’uscita di scena di Assad. Quest’ultimo, paradossalmente si vede rivalutato nel ruolo di “protettore” di uno Stato laico, multietnico e indipendente, nonché amico dei curdi. La partita non è perciò conclusa e meno che mai può chiudersi con la dichiarazione di un inesistente cessate il fuoco, con l’esodo dei curdi, la fuga dei tagliagole dell’Isis e l’occupazione militare di 30 mila chilometri quadrati di deserto petrolifero siriano. Sono invece questi gli elementi per l’inizio di un conflitto armato tra Turchia e Siria e di una crisi mediorientale ancora più grave e diffusa di quella attuale. Erdogan si prepara a questo e sa di non poter essere fermato da nessuno. In particolare sa benissimo che noi europei staremo solo a guardare e piagnucolare.