Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2019
La primavera araba ora è in autunno
I mali comuni si chiamano debito pubblico (incontrollato), corruzione, assenza di riforme democratiche. I sintomi della malattia si sono presto manifestati; sono la disoccupazione, la mancanza dei servizi di base, le sperequazioni della ricchezza, più in generale le diseguaglianze. Eppure le cure offerte dai Governi arabi per migliorare le rispettive economie ed arginare il malcontento popolare sono finora state insufficienti, se non del tutto assenti. Lo stesso vale sul fronte della politica.
Esasperati, disillusi, frustrati per una situazione non più sostenibile, i manifestanti hanno riempito in febbraio le strade e le piazze di Algeri. Le proteste sono poi dilagate in Sudan,con conseguenze inimmaginabili, hanno toccato l’Egitto, per poi estendersi fino al Libano e all’Iraq. Cosa sta accadendo nel tormentato mondo arabo? A prima vista sembrerebbe sia nata una nuova primavera, in cui le rivendicazioni economiche sono il fattore trainante. La verità, probabilmente, è un’altra: l’onda lunga delle primavere arabe, o del lungo inverno che ne è seguito, non si è ancora esaurita. Per una semplice ragione; perché non sono state risolte le cause alla base del malcontento e perché questo processo di trasformazione richiederà ancora molti anni.
Rispetto al terremoto che nel 2011 aveva scosso il mondo arabo, le nuove proteste, pur presentando diversi punti in comune, hanno anche numerose differenze. Che sia il Libano, l’Iraq, l’Algeria o il Sudan, non può non passare inosservata l’assenza dell’Islam politico. Certo, anche nel 2011, la rivolta partì dai giovani, spesso laici. Ma presto gli organizzati movimenti islamisti cavalcarono la protesta assumendone le redini. Un’altra differenza è la durata delle nuove manifestazioni. Nel 2011 ci volle meno di un mese per rovesciare il regime di ben Ali in Tunisia, e tre settimane per quello di Hosni Mubarak in Egitto. In Libia e in Siria la rivolta è invece degenerata presto in guerra civile. Quasi avessero preso coscienza che una paziente e perseverante presenza è il solo modo per centrare gli ambiziosi obiettivi (che la guerra rischia di vanificare) i nuovi manifestanti arabi hanno finora dato il via a forme di protesta decisamente meno violente (tranne che in Iraq) ma molto più lunghe. È un braccio di ferro in cui i due sfidanti evitano iniziative drastiche: i regimi paiono disposti a fare più concessioni. E, al di là di quanto accaduto in Sudan e in parte in Iraq, non hanno scatenato sanguinose repressioni, come fecero invece nel 2011. Da parte loro i manifestanti hanno imparato a contenere la rabbia.
Che accada in Nord Africa o nel lontano Iraq c’è qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato. È il disinteresse mostrato dalle potenze regionali e l’apatia da parte di quelle occidentali, che tanto si erano sbilanciate nel 2011. Considerando i suoi legami storici, il silenzio della Francia per quanto sta accadendo in Libano, ma anche in Algeria, è assordante. Sono silenziosi anche gli Stati Uniti, che nel 2011 avevano ritirato il sostegno al loro grande alleato arabo, Hosni Mubarak. Tacciono perfino la Turchia e il ricchissimo Qatar,che nel 2011 e negli anni seguenti divenirono sponsor delle rivolte,soprattutto in Libia, finanziando i movimenti islamici legati alla Fratellanza Musulmana. Doha oggi appare troppo impegnata ad affrontare le conseguenze dell’embargo decretato da Riad e nel giugno del 2017. Quanto alla Turchia,l’offensiva militare lanciata nel nord della Siria contro le milizie curde sembra lasciar poco spazio ad altre iniziative. Restano in silenzio, quasi dessero un tacito assenso al mantenimento dello status quo,anche la Russia, la potenza mondiale più influente in Medio Oriente e l’Iran, che in Iraq sta dalla parte del Governo. Il tutto con grande sollievo delle monarchie sunnite, in prima linea Riad, terrorizzate che il vento della protesta possa travolgere i loro regni.
Nessuno può prevedere cosa sarà il Medio Oriente da qui a 10 anni. È un processo di trasformazione che darà i risultati, se mai li darà, solo sul lungo periodo. Occorrerà vedere se in Libano il Governo saprà dare una risposta concreta, e se la protesta, per la prima volta trasversale (sono scesi in piazza sunniti, sciiti, cristiani e drusi), si accontenterà delle riforme e delle promesse dell’élite al potere. I mali del Libano sono cronici. I servizi pubblici sono allo sfascio, il debito si è gonfiato al 150% del Pil.
Se in Libano le proteste sono appena iniziate in Algeria durano ormai da otto mesi. Dal 22 febbraio, ogni martedì, puntuali, gli algerini si ritrovano nelle strade per chiedere all’esercito, la vera forza al potere, di farsi da parte e avviare una nuova e credibile transizione democratica. A prima vista le loro rivendicazioni appaiono politiche, ma dietro alla perseveranza degli algerini c’è anche la rabbia dei giovani e meno giovani per le promesse mancate e per la crisi economica in corso. Dal 2014, anche a causa della caduta dei prezzi del greggio, l’economia ha iniziato a mostrare segni di sofferenza ed ora la situazione è quasi insostenibile. Nel 2018 il debito pubblico è salito al 38% del Pil (nel 2017 era al 27%).La disoccupazione è ormai una piaga, il carovita motivo di rabbia.
Da un manipolo di giovani laureati disoccupati e venditori di strada, in Iraq le proteste hanno assunto una dimensione nazionale mettendo a rischio un Governo nato dopo estenuanti negoziati. Al cuore della protesta, non di rado violenta, ci sono ancora una volta le rivendicazioni economiche contro un elite accusata di corruzione, rea di aver dissipato le grandi entrate petrolifere. «Non c’è una soluzione magica», ha spiegato il premier Abdul Mahdi. Una dichiarazione che non prelude a nulla di buono. La primavera contro le diseguglianze pare appena iniziata. E i manifestanti sanno di essere soli.