La Stampa, 25 ottobre 2019
Il carteggio Valéry-Einstein
Una profezia, angosciata e drammatica, sul pericolo che i veleni dell’antisemitismo e della dittatura nazionalista dilaghino in tutt’Europa e che, letta oggi, conserva intatta la sua attualità. È il passo più significativo di una lettera di Albert Einstein, in risposta a un messaggio di solidarietà inviatogli da Paul Valéry, quando, nel 1933, i nazisti gli tolsero la cattedra universitaria, i beni, la casa e lo costrinsero all’esilio.
Il carteggio, finora inedito, tra il poeta francese e Einstein, che documenta le relazioni di stima e amicizia di due tra le figure più importanti della cultura europea nella prima metà del Novecento, sarà presentato a Torino, martedì 29 ottobre, da Marina Giaveri, specialista di letteratura comparata e membro dell’Accademia delle scienze, nella sala dei Mappamondi. La casa editrice Colophonarte, lo racchiuderà in un libro di prossima pubblicazione, illustrato da Mimmo Paladino.
Le lettere, gli incontri, gli scambi di esperienze culturali avvenuti tra le due guerre mondiali, ventennio in Europa di ingenue speranze e di crescenti paure, testimoniano il tentativo di una parte, sia pure minoritaria, della intellighenzia continentale dell’epoca di opporsi ai quei fantasmi dell’intolleranza a sfondo razziale e della dittatura che, purtroppo, si stavano trasformando in concreti regimi di oppressione della libertà e della democrazia.
Paul Valéry, approfittando del suo prestigio e del suo successo in Francia, comincia a tenere conferenze in tutt’Europa per propagandare l’universalismo della scienza contro quello che definisce «il nazionalismo insensato» e la difesa di quegli «ideali umanitari» che dovrebbero costituire, come patrimonio condiviso, barriere insuperabili contro l’attacco ai fondamentali diritti delle persone. È proprio durante una di queste conferenze, al «Pen club» di Berlino, che Einstein, seduto nelle prime file, ascolta con ammirazione le parole di Valéry e, alla fine del discorso del poeta, si va a congratulare con lui.
Da quella occasione comincia quella intensa corrispondenza di idee e di frequentazioni personali che si fonda su un comune interesse culturale, quello dell’unità inscindibile e preziosa, tra ricerca scientifica e pensiero umanistico. Una lezione, altrettanto importante di quella politica e civile, che i due intellettuali impartiscono al mondo d’oggi, sempre più tentato da una specializzazione che impedisce di comprendere la complessità dei problemi attuali, l’interdipendenza delle conseguenze che ne derivano e l’impossibilità di risolverla con soluzioni semplicistiche.
Valéry sviluppa la passione per la scienza, soprattutto per gli aspetti gnoseologici, quando, dopo la famosa «notte di Genova» del 1892 in cui decide di abbandonare la poesia, scopre la teoria della relatività di Einstein e convince il direttore della Nouvelle Revue Française a pubblicare un articolo apparso sulla rivista Athenaeum dedicato a questa scoperta. L’articolo era di autore anonimo, ma, in seguito, si rivelerà scritto da Bertrand Russel. Il suo interesse per mondi apparentemente lontani dalla letteratura si conferma, poi, quando Valéry, approfittando della sua conoscenza della lingua italiana appresa dal nonno triestino e dalla nonna istriana, si cimenta in un’impresa molto difficile, la traduzione in francese degli scritti di Leonardo da Vinci.
Gli interessi poliedrici del gruppo di letterati, filosofi e scienziati che, nel cuore dell’Europa, sentono l’avvicinarsi di una tempesta di lutti e distruzioni e tentano disperatamente di opporsi si confermano, tra l’altro, anche da un aneddoto curioso raccontato dalla figlia di Valéry, Agathe. Il filosofo più celebre nella Francia di allora, il teorico dell’intuizione contrapposta all’intelligenza, Henri Bergson, pure lui premio Nobel, è ricoverato in ospedale per l’operazione di prostata. Così, Einstein e Valéry, accompagnato dalla figlia, vanno a trovarlo. Accanto al letto, invece di occuparsi delle sofferenze del malato, dell’esito dell’intervento e delle prospettive della convalescenza, si sviluppa un intenso dibattito sui destini della politica, della cultura, della scienza, spaziando, tra i tre protagonisti, con estrema disinvoltura, in ogni campo del sapere, finché la povera Agathe, sopraffatta dalla noia e dall’assoluta incomprensione di quanto si dicano, li richiama allo scopo primario di quella visita.
Si intensificano, intanto, gli attacchi a Einstein per le sue origini ebraiche e nel gennaio1933, quando Hitler sale al potere, viene licenziato dall’università, gli vengono sottratti i beni di famiglia ed è costretto a lasciare la Germania. Tramite l’amicizia di Valéry con la regina del Belgio, il grande scienziato trova una temporanea ospitalità, prima del suo definitivo esilio negli Stati Uniti, proprio a Ostenda, in una casetta che appartiene alla sovrana belga. Arrivato al confine tedesco, uno zelante doganiere gli rivolge la burocratica e orribile domanda: «Di che razza siete?». La replica di Einstein arriva con una risposta famosa, fulminante e capace di azzittirlo: «Umana».
Nell’aprile di quell’anno Valéry, indignato per quella che definisce «una politica insensata e bestiale», come si legge qui accanto, gli manda una lettera piena di ammirazione che Einstein accoglie «con autentica gioia». Lo scienziato gli risponde con parole di lucida e preveggente analisi su una deriva drammatica, non solo per la Germania, perché «il veleno» contagerà anche le altre nazioni. È significativo, a questo proposito, il post scriptum alla fine del testo, perché lo scienziato raccomanda a Valéry di non divulgare la lettera alla stampa, considerandola come assolutamente privata. La decisione testimonia la volontà di modulare la sua reazione pubblica alla dittatura nazista alla luce delle mosse di quel regime, nella speranza che le sue pessimistiche previsioni si dimostrino, nei fatti, infondate.
La storia, purtroppo, non solo le confermò, ma aggiunse vicende così tragiche e inumane che, forse, in quel 1933 Einstein non poteva neanche immaginare. L’Atlantico, a quel punto, lo divide dall’amico poeta francese, ma il destino non riserva a Valéry una sorte migliore, seppur non costringendolo all’esilio. Lo scoppio della guerra lo affligge, tra una indigenza che sfiora la fame e forti dolori, privati e sentimentali. L’orazione funebre che Valéry pronuncia in memoria di Bergson, improntata ai valori di pace, di libertà e di dignità umana suscita, in ambienti antisemiti e conservatori, molto forti nella Francia di quegli anni, accuse violente e un’aperta ostilità. Così, quando un gruppo di SS irrompe nella sua casa, i familiari temono il peggio. Lo salva una copia del Faust di Goethe in tedesco appoggiata sulla sua scrivania. Valéry ci stava lavorando per un suo progetto letterario e, quando le milizie naziste se ne accorgono, cambiano idea e lasciano la sua abitazione.
Le due lettere qui pubblicate, accanto ad altre altrettanto interessanti, testimoniano, in quella generale indifferenza e viltà denunciata nella lettera di Einstein, la consapevolezza, invece, di alcuni tra i migliori intellettuali, negli anni tra le due guerre mondiali, della fine di un’epoca di cultura europea. Quella cominciata nella Grecia dei grandi filosofi che, per primi, si posero le domande fondamentali dell’esistenza, proseguita da quella Roma che sostituì il diritto all’arbitrio nelle regole della convivenza umana e che era arrivata fino a Parigi, dove all’eredità della lezione illuminista si era aggiunto il fascino dell’immaginazione. Per l’Europa si apriva una stagione buia e terribile che si sarebbe chiusa solo nel 1945, con l’illusione di una irreversibile vittoria dei principi di libertà individuale, rispetto delle leggi e dei diritti della persona, democrazia politica e tolleranza civile.
Forse, era proprio un’illusione, perché, come diceva il grande Eduardo, la malata Europa ha ancora da «passà a nuttata».