ItaliaOggi, 25 ottobre 2019
La capotreno rossa con al collo un laccetto multicolore con la scritta «Dieci anni di PRIDE» è una donna seria. Ce ne vorrebbero. Grazie.
Regionale veloce 2031 da Torino Porta Nuova a Magenta, sera del 22 ottobre. Tenete presente questo dettaglio. Sto tornando da Torino dove sono andato per il mio giornale, e stasera c’è stato maltempo. Per dire: questo treno dovrebbe partire alle 19.54, ma farà quasi 20 minuti di ritardo. Pazienza: salgo e mi vado a sedere nella seconda vettura in testa, seconda classe. E ancora una volta il treno diventa l’osservatorio privilegiato dal quale si vede l’Italia vera, altro che sondaggi. Il convoglio parte, sferraglia sotto Torino, supera Porta Susa e si lancia nella campagna piemontese. Vorrei solo tornarmene a casa, sono stanco e non ne ho più voglia mentre arriviamo a Chivasso. Qui salgono delle fanciulle di colore, vestite molto vistosamente: una, per esempio, è sul metro e 80, fisicamente prestante, con degli orecchinazzi a cerchio che potresti metterci camera d’aria, copertone e col telaio farti una bicicletta, al cui interno a lettere cubitali è scritto Sexy. Non dirò altro delle fanciulle, né della professione che mi ha suggerito la loro vista (sarei tacciato di razzismo, sessismo e anticristianesimo in un colpo solo e non voglio), come non dirò del loro allegro schiamazzare. Fino a quando dopo Santhià ecco, per dirla alla Charles Bukowski, Il Gran Pugno della Legge (cit., maiuscole sue).
La capotreno, una rossa con al collo un laccetto multicolore e la scritta «Dieci anni di PRIDE» (scritto così), chiede i biglietti. Che le signorine, accolte in questo Paese #restiamoumani, non hanno. Le signorine parlottano in inglese tra loro, ma la rossa (che sotto deve avere un paio di cabasisi grossi così) risponde loro a tono in un buon inglese e spiega che a) sono salite a Chivasso e le ha già viste a bordo treno, e b) chi paga resta a bordo, chi no deve scendere.
Stiamo per entrare in stazione a Vercelli e la conversazione torna all’italiano. La capotreno chiede: «Che facciamo? Paga solo il signore (che sarei io in mancanza d’altri, ndr) per tutta la vettura?». La conversazione riprende serrata e una delle signorine (che stanno andando a Magenta, immagino così vestite a lavorare la sera in qualche luogo di alta cultura, sia mai ipotizzassi un qualche altro esercizio professionale magari noto alle forze dell’ordine) obietta: «Pagare? Ma non è giusto». Effettivamente: l’unico fesso che ha pagato sono io, e per giunta un biglietto di prima classe su un treno che da orario risulta di prima e seconda ma non mi pare abbia stasera in composizione la vettura di prima classe. Trenitalia, batti un colpo please.
Com’è e come non è, le signorine vengono fatte scendere a Vercelli. Il treno resta fermo e prende ulteriore ritardo, ma la capotreno è riuscita a rispettare le regole. E quel nastro multicolore del Pride mi impedisce di qualificarla come fascista o leghista, né tantomeno come ignorante (che di solito si accompagna alle prime due definizioni). Forse, anzi di sicuro, è solo una persona perbene che si sta guadagnando lo stipendio. E non fa notizia. Ma voglio salutarla da queste pagine per il lavoro che fa tutti i giorni. C’è ancora un’Italia che crede nelle regole e non nel buonismo piagnone e accoglione, là fuori. Grazie, signora o signorina.