Avvenire, 25 ottobre 2019
Contro la dittatura dei numeri
Tutto cominciò probabilmente con Frederick Winslow Taylor (1856-1915) e il progetto di una ’direzione scientifica del lavoro’. Naturalmente anche altri prima di lui, come Andrew Ure e Charles Babbage, si erano posti il problema di un’organizzazione razionale della produzione. Ma proprio il ’taylorismo’ fissò una serie di principi destinati a segnare l’intero Novecento. Rampollo di una ricca famiglia di Filadelfia, Taylor rifiutò di proseguire gli studi ad Harvard e decise di entrare in fabbrica come operaio, dove assunse ben presto incarichi direttivi. Nella sua attività poté mettere a frutto i tratti di una personalità che alcuni biografi hanno definito «ossessivo-coatta» e propria di un «eccentrico nevrotico». Fin da giovanissimo, Taylor aveva infatti contato i propri passi e misurato il tempo impiegato per svolgere varie attività, sempre con l’obiettivo di ottenere una maggiore efficienza. Sfruttando quella che era un’inclinazione per lui naturale, iniziò così a elaborare i principi della «direzione scientifica del lavoro»: in sostanza, per controllare al meglio il lavoro di un operaio, era necessario scomporne le mansioni, riducendole a compiti estremamente semplici, che non comportavano alcuna decisione autonoma e nessuna abilità specifica. L’attività di ideazione e progettazione poteva essere così separata dall’esecuzione, mentre i ritmi del processo di lavoro – una volta che questo era stato ridotto a segmenti elementari – potevano essere agevolmente controllati dalla direzione. E naturalmente coloro che erano più rapidi nello svolgere il loro compito potevano essere premiati con incentivi.
Il taylorismo segnò davvero la fabbrica del Novecento, tanto che persino Lenin rimase affascinato dalla sua efficienza. Ma a partire dagli anni Settanta, con la ristrutturazione delle grandi aziende soprattutto nel settore metalmeccanico, furono abbandonati molti dei principi formulati da Taylor, che d’altronde erano stati uno dei bersagli privilegiati dei conflitti di fabbrica. Proprio allora il ricorso alle misurazioni fu però mutuato dai servizi pubblici e in particolare da settori come la sanità, l’istruzione, la sicurezza pubblica. E alla fine del secolo la misurazione di parametri si tramutò in una vera e propria ossessione.
Un importante antidoto per comprendere le distorsioni che l’utilizzo di simili strumenti innesca è offerto dal volume di Jerry Z. Muller, Contro i numeri. Perché l’ossessione per dati e quantità sta rallentando il mondo. Nel libro, il docente di storia della Catholic university of America ricostruisce le origini intellettuali della mania per la misurazione delle performance, spingendosi indietro nel tempo fino al 1910, quando negli Stati Uniti venne fondato il Movimento per l’efficienza scolastica, con l’obiettivo di applicare i principi del taylorismo anche alla scuola. Naturalmente in questo caso l’obiettivo era misurare non i ritmi di lavoro, bensì l’efficacia di ciascun insegnante, che poteva essere quantificata dai risultati scolastici ottenuti dagli alunni di ogni docente. Ma fu soprattutto a partire dagli anni Ottanta che l’imperativo della misurazione delle performance iniziò a diventare un mantra insegnato in tutte le Business School. E fu proprio in quel decennio che il New Public Management, nella convinzione di poter far funzionare i servizi pubblici «come le aziende», prese a richiedere che fossero prodotti indicatori di efficienza, in grado di segnalare ai contribuenti quale fosse la ’produttività’ delle scuole, delle università, degli ospedali verso cui fluivano i finanziamenti pubblici. Naturalmente l’obiettivo che spinge a misurare le performance di medici, insegnanti e poliziotti e di molti altri operatori è quello di garantirne l’efficienza, di eliminare i margini di improduttività, di introdurre una reale ’meritocrazia’, in grado di premiare i più ’bravi’ e di punire i meno laboriosi, meno motivati o meno capaci. Ma i risultati rimangono molto incerti. L’applicazione di quei criteri ha infatti spesso generato problemi ulteriori e innescato effetti perversi, per molteplici motivi, che Muller enumera puntigliosamente.
Innanzitutto, ciò che può essere misurato non sempre si riferisce agli aspetti più importanti. Inoltre, i dati si riferiscono alle risorse impiegate e non ai risultati, mentre la standardizzazione dei dati spesso impedisce la loro contestualizzazione. Infine, la misurazione dei parametri può essere manipolata in vari modi, che comunque allontanano dagli obiettivi di fondo delle singole organizzazioni. Per esempio, medici che non vogliono peggiorare gli indicatori di performance evitano operazioni rischiose e si dedicano solo a quelle facili, ospedali che puntano a non intaccare le performance positive rifiutano pazienti a rischio di decesso, mentre ricercatori che vogliono migliorare gli indici di produttività preferiscono pubblicare articoli con minimi aggiornamenti, piuttosto che impegnarsi in lunghe indagini, destinate a produrre risultati solo dopo molto tempo. Il libro di Muller non nega ovviamente che i numeri siano importanti e non contesta che i parametri possano aiutare a capire, almeno in alcuni casi, se qualcosa non funziona in un’organizzazione complessa. Ma il punto è che questi numeri non possono sostituire il giudizio personale e devono semmai affiancarlo. Solo la valutazione consapevole di chi conosce effettivamente uno specifico ambito – e sa quale significato assegnare ai numeri – può impedire infatti che l’ossessione si trasformi in un dispotismo controproducente. Per Muller dovremmo dunque «sapere quanto peso dare ai parametri, individuare le loro tipiche distorsioni e riconoscere ciò che non può essere misurato». E dovremmo anche poter decidere che, per giungere a valutazioni meditate, almeno qualche volta è meglio fare a meno dei numeri.