Oltre alla fortuna c’è altro. Fa parte dei Rolling Stones, ha suonato con McCartney e Ringo, con Dylan e Clapton, con Chuck Berry e Muddy Waters, è un essere mitologico metà uomo e metà chitarra.
«Ho un senso naturale del timing, mi trovo sempre al posto giusto nel momento giusto e riesco ad andare d’accordo con tanta gente. Ho anche del talento, probabilmente. Ma è soprattutto la voglia di cercare, sperimentare, conoscere, quella che mi ha spinto da quand’ero giovane e che ancora mi spinge oggi a fare sempre cose nuove, diverse».
La stessa spinta l’ha portata anche a toccare i limiti.
«Ma pure a rimettere i piedi per terra, a capire che una fase della mia vita per fortuna era finita e dovevo cambiare. E così è stato. Essere quel Ronnie Wood era diventato difficile e non aveva più nemmeno molto senso. Il che non vuol dire che io oggi non mi diverta o che non abbia mantenuto vivo il seme della follia…».
Perché un disco senza i Rolling Stones?
«Perché mi andava di raccontare un pezzo della mia storia, così come faccio con i quadri che dipingo, o con il documentario che sta per uscire.
Non so stare fermo a lungo, vivo di arte in tante forme diverse e non ne posso fare a meno. E poi Keith mi ha dato la sua benedizione».
Siete sempre molto amici?
«Sì, nonostante viviamo lontani, io in Inghilterra e lui negli Stati Uniti.
Siamo padrini dei nostri rispettivi figli, quelli più grandi sono amici tra di loro e quando andiamo in tour siamo spesso tutti insieme come una grande famiglia».
Lei è letteralmente rinato, dopo la malattia, con la sobrietà e con tanta musica.
«E anche con i figli. Avere due ragazzini in giro per casa, dover ricordare cosa vuol dire crescere dei bambini, ti abitua a mettere in fila le priorità. La musica in questo mi ha aiutato moltissimo e credo che questo disco sia il necessario tributo a uno degli artisti che mi hanno fatto diventare quello che sono».
Perché Chuck Berry?
«Quando è morto, due anni fa, pensavo che ci sarebbe stato un diluvio di celebrazioni, di tributi, di quel che meritava un musicista così grande. Invece niente. E allora mi sono detto "lo faccio io". Mi sembrava giusto e importante, intere generazioni di musicisti sono cresciuti con i suoi lavori. E forse, con un disco come questo, qualche giovane potrebbe scoprirlo e innamorarsene anche oggi, perché la sua musica è senza tempo».
I ragazzi ascoltano musica molto diversa oggi.
«E mi dispiace per loro, perché hanno a disposizione talmente tante possibilità ed è difficile orientarsi, scegliere. Non riescono a dedicare il giusto tempo all’ascolto, vengono travolti ogni minuto da qualcosa di nuovo, tutto scorre con troppa velocità. Ma per fortuna ci sono i concerti e infatti tra poco inizierò un altro tour con la mia band per far ascoltare la musica di Chuck Berry, il blues, il rock’n’roll».
Verrà anche in Europa?
«Vorrei, ma gli Stones richiedono dedizione e tempo, andremo di nuovo in tour e per fare queste cose devo aspettare le loro pause».
Con gli Stones è un glorioso gregario. Ma le piace essere ogni tanto il bandleader, come in questo caso.
«Ma certo, mi diverto, faccio i miei trucchi. Mi piace suonare Chuck Berry, Eddie Taylor e le cose blues che non ho mai smesso di amare. Io ascolto ancora molta di quella musica ma anche il jazz, la classica, le cose di oggi. Non smetto mai di scoprire, di imparare. Anche nella pittura è lo stesso. Ho sempre ascoltato, guardato con attenzione, letto: è grazie a tutto questo che ho costruito il mio stile».