Corriere della Sera, 25 ottobre 2019
I brani di Beyoncé cantati alla messa
Parte la base musicale. È Destiny’s Child – Survivor di Beyoncé. Una giovane afroamericana afferra il microfono. Tira fuori una gran voce: «I’m a survivor, I’m gonna make it...» si toglie il soprabito di pelliccia sintetica, lo scaglia in terra. L’audience risponde con un’ovazione. Ballano tutti e accompagnano in coro: «I will survive, keep on surviving».
Grace Cathedral, pieno centro di San Francisco, non lontano dal Financial District. Fino a non molto tempo fa era frequentata da poche decine di fedeli. Ora, invece, anche mille persone si mettono in fila per stiparsi tra i banchi della chiesa. Pregano, cantano, riflettono e si divertono molto. La «Messa di Beyoncé» è cominciata qui, in una delle città più brillanti e contraddittorie degli Stati Uniti: record di startup tecnologiche, ma anche senzatetto ovunque.
L’idea è di Yolanda Norton, predicatrice e teologa. Studiosa della Bibbia ebraica, iscritta al Bey Hive, il club dei fan della trentottenne pop star texana Beyoncé Giselle Knowles-Carter. Per il mondo, Beyoncé.
Norton, 37 anni, insegna al Black Church Studies e all’Union Theological Seminar di San Francisco. Ha iniziato nelle sue lezioni a mescolare Antico Testamento e moderna realtà sociale, con un obiettivo chiaro, come racconta nel video pubblicato sul sito Beyoncemass.com e come ha ripetuto nei giorni scorsi al New York Times: «La nostra celebrazione si rivolge in particolare alle ragazze nere. Vogliamo ricordare loro che fanno parte di ciò che Dio aveva in mente durante la Creazione. Noi portiamo le storie quotidiane e la realtà delle giovani afroamericane al centro dell’arte liturgica; valorizziamo queste realtà in un mondo che spesso le respinge, che continua a rendere loro la vita difficile».
Le prime funzioni risalgono all’aprile del 2018. Ma è una formula da esportazione. In questi giorni è arrivata a New York. Mercoledì 23 ottobre nella Presbyterian Church of Brooklyn e ieri sera nella St. James Presbyterian ad Harlem. Il pubblico, in realtà, è composito. Le immagini riprese nella Grace Cathedral mostrano tanti giovani e anche diverse pantere grigie.
In fondo Beyoncé potrebbe essere considerata l’ultimo stadio di un’evoluzione che intreccia black music e religione. Lo spiega sempre al New York Times Kelly Brown Douglas, preside dell’Union Theological Seminar: «Gli artisti hanno avuto un ruolo centrale nella lotta per la libertà degli afroamericani, da Nina Simone a Harry Belafonte».
Il messaggio di Beyoncé fa parte di questa tradizione. I versi di Destiny’s Child richiamano la condizione di «una sopravvissuta» che «troverà il modo per continuare a sopravvivere». Brown Douglas offre un altro esempio: «In Freedom Beyoncé invita a essere liberi, a cercare la propria libertà, a essere se stessi. Nei suoi video non compare solo un tipo di corpo femminile; ma più possibilità di essere donna e di essere nera. Non c’è vergogna per il proprio fisico; non c’è “colorismo”».
Andiamo in pace, dunque, e che anche Beyoncé sia con noi.