Corriere della Sera, 25 ottobre 2019
Mario Draghi, otto anni vissuti in prima linea
Aveva un dottorato in Economia al Massachusetts Institute of Techonology. Era già stato accademico di rango, direttore del Tesoro di un Paese del G7, banchiere di Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia. Ma forse neanche Mario Draghi avrebbe immaginato che le parole con le quali saranno ricordati i suoi anni alla Banca centrale europea – pronunciate il 26 luglio del 2012 – gli sarebbero venute da un telefilm.
Perché lui e sua moglie Serenella da anni nel tempo libero sono ghiotti di serie americane. Negli anni della crisi dell’euro, quando passa da governatore a Roma a presidente a Francoforte, c’è un western in particolare che Draghi guarda con gusto. Nella trama c’è sempre il buono che deve arrestare il cattivo «a qualunque costo»: whatever it takes.
Furono le tre parole che misero in ritirata la marea speculativa, quando l’economista italiano le pronunciò alla UKTI’s Global Investment Conference di Londra quel giorno: «La Bce è pronta a fare whatever it takes, qualunque cosa serva, per preservare l’euro. E, credetemi, sarà abbastanza». Era il segnale che la Bce era diventata un prestatore di ultima istanza per il sistema dell’euro e già solo sapere che c’era era tanto da paralizzare la speculazione ribassista. Il mercato gli credette subito forse anche perché Draghi – l’uomo del «never give up», mai cedere – in quel momento aveva una carica di determinazione in più. Poco prima di salire sul podio aveva incontrato in privato un piccolo gruppo di gestori di hedge fund londinesi. Con l’aria di saperla lunga, i manager gli avevano spiegato che l’Italia e la Spagna sarebbero saltate e l’euro sarebbe andato in pezzi. Draghi non disse niente, si limitò ad ascoltare. Sapeva che li avrebbe smentiti pochi minuti dopo.
Due anni dopo a un seminario all’Università di Roma Tre, in ricordo di Luigi Spaventa, Fabio Panetta della Banca d’Italia avrebbe ricordato la passione di Draghi per i western con una battuta: «Solo un genio poteva trasformare una battuta da telefilm in una frase che avrebbe fatto la storia» (Panetta adesso si prepara a entrare nell’esecutivo della Bce poco dopo l’uscita del presidente italiano).
Ma se c’è una lezione dal whatever it takes, essa va oltre la capacità di Draghi di comunicare. Per tutta la fase più dura della crisi dell’euro dalla fine del 2011 all’estate 2012, appena arrivato alla Bce, il banchiere centrale italiano pensava a un’uscita che poi si sarebbe riassunta in quelle tre parole pronunciate a Londra. A trattenerlo era la percezione molto politica che la Germania non era ancora pronta a seguirlo: lo sarebbe stata solo a luglio, con la crisi giunta ormai a un punto critico e l’avvio dell’Unione bancaria deciso poco prima anche grazie all’insistenza del governo di Mario Monti.
In quel saper aspettare il momento giusto ed evitare le battaglie che non si possono vincere, c’è tutto il Draghi banchiere centrale. Fin da quando era vicinissimo alla coronazione da presidente della Bce in aprile e giugno del 2011 partecipò all’errore forse più grande nella storia della banca centrale: l’Eurotower guidata da Jean-Claude Trichet alzò i tassi due volte, una stretta monetaria disastrosa con l’eurozona in recessione e sull’orlo di una crisi sistemica. Nel Consiglio direttivo, Draghi votò con (quasi) tutti gli altri a favore del rialzo dei tassi. Poi non appena prese il posto di Trichet pochi mesi dopo, da novembre, smantellò una dopo l’altra quelle strette monetarie. È probabile dunque che l’italiano fosse perplesso dall’inizio sulla decisione di Trichet, ma capiva che opporsi in quel momento non sarebbe servito: avrebbe perso e – peggio – avrebbe fossilizzato le divisioni nel vertice dell’Eurotower, rendendo più difficile trovare una maggioranza per politiche più morbide in seguito.
È la lezione che non ha mai colto il suo grande oppositore di questi anni, il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Draghi senz’altro ha potuto affrontarlo anche perché per otto anni gli scambi con la cancelliera Angela Merkel sono stati continui, in anni recenti allargati anche al presidente francese Emmanuel Macron. Ma alla fine il segno del suo stile è sempre stata la capacità di decidere da solo il passo decisivo, creando un fatto compiuto che abbattesse le obiezioni dei critici: lo ha fatto con il whatever it takes nel 2012, quindi con il discorso di Jackson Hole dell’agosto del 2014 che spianò la strada all’acquisto di titoli per 2.600 miliardi di euro in quattro anni (il Quantitative easing). Lo ha fatto poi da giugno a settembre di quest’anno, quando ha rilanciato un grosso pacchetto di misure di stimolo fra le critiche aperte dei suoi avversari.