il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2019
Per Roma, era quasi meglio la Mafia
Dopo la sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione esultano i giornali romani e quelli più legati al mondo romano, un po’ meno i quotidiani del nord, compresi i notoriamente “ultragarantisti” Il Giornale e Libero che non danno alla notizia un rilievo particolare. Il Tempo: “Mafia Capitale non è mai esistita”. Il Messaggero: “Non era mafia Capitale”. Il Foglio: “Mafia Capitale era una fiction”. Sul Messaggero Mario Ajello, figlio di Nello Ajello (nel giornalismo italiano quasi nessuno è figlio di nessuno) si lancia in una intemerata contro la sentenza della Corte d’appello, riformata ora dalla Cassazione, che aveva definito Roma come una città potentemente infiltrata da associazioni mafiose che usavano metodi mafiosi. E scrive: “Era una fake news (la sentenza della Corte d’appello, ndr). Ma quanti danni ha creato, quanta vergogna ha prodotto, come è riuscita ad annichilire la coscienza personale e pubblica dei romani, e ad abbattere l’immagine di capitale d’Italia e di caput mundi, l’etichetta di Mafia Capitale. Mai brand ha distrutto di più, agli occhi di tutti, la reputazione di una città… Mafia Capitale ha segnato la brusca interruzione del plurimillenario rispetto che il mondo portava a questa città, non solo per il suo passato ma anche per il resto della sua storia”.
E allora che cos’era questa Mafia Capitale che non era mafia? Ce lo spiega, in tutta innocenza e con un certo candore, Il Foglio, un giornale che con un trucco, come ha ammesso Giuliano Ferrara che ne fu lo storico direttore, è in parte pagato dai contribuenti, cioè da noi: “Non era mafia, dunque, ma una semplice associazione a delinquere (‘corruzione come ovunque’ secondo Il Tempo, ndr) quella che dal 2011 al 2 dicembre 2014, data in cui deflagrò l’inchiesta con decine di arresti e rilevanza mediatica in tutto il mondo, avrebbe operato nella Capitale accaparrandosi appalti per la manutenzione urbana (come punti verdi e piste ciclabili) e per il sociale (gestione dei migranti) coinvolgendo anche i vertici di Ama, la municipalizzata dei rifiuti”… In quanto a Salvatore Buzzi era “un imprenditore a capo di una compagine di cooperative sociali che offriva lavoro a ex detenuti, con la complicità di politici e funzionari pubblici”.
Il tutto condito con “intimidazioni e minacce”, cioè quella “riserva di violenza” riconosciuta in primo grado che il verdetto della Cassazione non ha smentito. Insomma bazzecole, cose di tutti i giorni da non meritare che si spacchi il capello in quattro.
Io dico che sarebbe stato meglio se in Roma fosse stata accertata la presenza di una mafia propriamente detta. Perché la mafia ha una struttura, un’organizzazione, una gerarchia, per cui si può pensare di poterla smantellare, almeno in linea teorica, risalendo dai “picciotti” ai sottocapi e ai capi. La corruzione capillare, il cosiddetto “mondo di mezzo” è invece “liquido”, come si dice oggi, non è individuabile se non caso per caso e può coinvolgere tutti, anche persone all’apparenza insospettabili. A differenza della mafia propriamente detta ti sguscia fra le dita, come acqua infetta, senza poter nemmeno sapere che ti ha sporcato.
In quanto alla reputazione di Roma tanto decantata da Mario Ajello è patetica. Quando i piemontesi nel 1865 spostarono la capitale da Torino, troppo decentrata, decisero per Firenze tanto Roma era malfamata. Roma è splendida, ma è una città clientelare e corrotta dai tempi dell’Impero Romano. Come una cozza ha assorbito il peggio del Sud, trasportandolo poi al Nord, in particolare a Milano la fu “capitale morale”.
Nel 1980 feci per Il Settimanale un’inchiesta intitolata “Via da Roma la capitale”. Roma infatti col progressivo accentramento di tutti i poteri, dai ministeri alla Rai alla stessa economia (gli imprenditori del nord dovevano fare code defaticanti davanti a sottosegretari e segretari, non dico ai loro ministri, irraggiungibili, per cercare di risolvere qualche loro problema) aveva finito per assorbire, nel modo peggiore, le energie positive del nostro Paese che allora non mancavano.
Ma molto prima di me, nel 1955, L’Espresso per l’illustre firma di Manlio Cancogni aveva dedicato pressoché l’intero settimanale a un’inchiesta intitolata “Capitale corrotta, nazione infetta”. Da allora nulla è cambiato, se non in peggio. Perché il cosiddetto “mondo di mezzo” è molto più inafferrabile della mafia. Io ribadisco quindi: meglio la mafia.