La Stampa, 24 ottobre 2019
A 90 anni dal crollo di Wall Street
Il 24 ottobre 1929 era un giovedì, come oggi. Anche allora le informazioni finanziarie viaggiavano velocissime, e in tutte le Borse vi era molto nervosismo: e alla Borsa di New York divenuta la più importante del mondo dopo la Prima guerra mondiale,– dopo 10 anni «ruggenti» di boom economico, le quotazioni stavano scivolando. Sciocchezze, dicevano in molti, è naturale prendere un po’ di fiato dopo una lunga corsa. E invece no. Quel giorno, la Borsa non si limitò a scivolare, crollò. E, se si eccettuano alcuni brevissimi e inutili tentativi di risalita, continuò a scendere per anni, una sorta di allucinante frana, che inghiottì risparmi e ricchezze.
La crisi si estese a tutto il pianeta, in forme più o meno gravi. Negli Stati Uniti la disoccupazione dal 5 per cento del 1929 balzò al 24 per cento nel 1933, mantenendosi sopra il 10 per cento fino alla Seconda guerra mondiale con condizioni di vita durissime per una gran parte della popolazione, come testimoniano i romanzi e i film di quel periodo. Altrove, in un’Europa che cerca di dimenticare il passato, è bene rammentarsi che la crisi economica contribuì fortemente all’affermazione del nazismo e al consolidamento del fascismo.
Sembra quindi appropriato domandarsi, proprio in questo 24 ottobre, se un qualcosa di simile possa ripetersi oggi, in un pianeta consumato dal tarlo dell’incertezza, con una crescita economica barcollante e una Borsa americana che è scivolata un poco dai suoi massimi di luglio, mentre da Londra a Santiago del Cile, da Washington a Hong Kong le condizioni politiche non possono che definirsi – per usare un eufemismo - fortemente anomale.
La risposta a questa domanda è: probabilmente no. Il che, però, non significa che possiamo stare allegri. Il virus della crisi economica iniziata nel 2008 - la cosiddetta Grande Recessione - è stato tenuto sotto controllo con dosi eccezionali di un antibiotico che si chiama «liquidità», non utilizzato negli Anni Trenta perché considerato troppo pericoloso.
Le banche centrali di tutto il mondo hanno immesso una grandissima quantità di liquidità, il che ha fatto scendere, talvolta sottozero, i tassi di interesse ma quello strano «cavallo» che è l’economia non ha sete e quindi nessuna voglia di bere. Del resto, perché il «cavalier Brambilla», simbolo del piccolo-medio imprenditore italiano di successo, dovrebbe indebitarsi per costruire un nuovo capannone e attrezzarlo con nuove macchine mentre la domanda risulta, sì e no, sufficiente a far girare la sua fabbrica attuale? In questa domanda sta tutta la difficoltà di coniugare crescita economica e emissione di liquidità.
Non è certo per caso che gli investimenti netti in Italia sono da vari anni prossimi allo zero e che siamo divenuti la «maglia nera» della crescita europea. È però solo l’ossessione per l’orticello di casa nostra che ci impedisce di scorgere che l’erba dei vicini non è più verde di quella italiana ma solo un po’ meno secca, in una situazione generale di «aridità economica» che coinvolge tutto il pianeta. Ed è una particolarità italiana quella di credere che basti schiacciare un bottone, che si chiami «lotta all’evasione» o «tetto al contante» perché tutto si aggiusti in tempo reale.
La soluzione a questo problema planetario non può trovarsi a livello di un singolo paese ma solo in una cooperazione generale che mancò negli Anni Trenta e condusse al secondo conflitto mondiale; l’Unione Europea, i cui organi, rinnovati dalle elezioni del maggio scorso, stanno iniziando la loro attività - e hanno anche la sostenibilità ambientale tra i loro obiettivi - può fare da elemento aggregante essenziale perché il mondo si metta su un sentiero di crescita migliore di quella del passato.