la Repubblica, 24 ottobre 2019
Ritratto di Giorgia Meloni
Fisicamente non somiglia alle cattiverie che dice. Dunque non è facile prendere sul serio Giorgia Meloni e anche noi, per troppo tempo, non l’abbiamo fatto. Quando, per esempio, grida che bisogna affondare le navi degli immigrati non fa pensare alla valchiria wagneriana fascista e razzista come la francese Marie Le Pen, alta, imponente e biondissima, ma alla parodia macho dell’Alice disneyana. Gli storici dell’illustrazione sanno come andò: “Non sono bionda, è che mi disegnano così” fece dire alla sua Alice il primo illustratore del Paese delle meraviglie, sir John Tenniel. L’ho pensato anch’io quando ho sentito la Meloni comiziare nelle periferie tra i coatti romani e gli emarginati. Sparava violenze che il suo corpo pareva non sopportare, robe amazzoniche e militari in bocca “a una signorinetta piccola piccola, bionda, pallida, dagli occhi ceruli” proprio come l’Adriana che accoglie a Roma il fu Mattia Pascal. Dev’essere per questo che piace così tanto ed è “la più amata dagli italiani”, perché addolcisce l’infamia. E sembra togliere ferocia alla gagliofferia anche quella sua cantilena da suburra, il ritmo ondulato della lingua dell’ozio romano che dubita di quel che dice mentre lo dice. È un ruggito sì, ma della sora Angelina: «Chiudiamo i porti», «spariamo sulle navi», «costruiamo i muri» e intanto «ce famo du spaghi a Garbatella che è er quartiere mio». E prima ti chiama «stellina» e poi, facendoti – come direbbe Arbore – l’occhietto, ti promette: «Cacceremo i rom a uno a uno, stanandoli casa per casa, tenda per tenda». Robaccia forte, insomma, che non si adatta più ai vezzeggiativi del romanesco e neppure alle simpatie trasversali: «Godo di buona stampa, anche a sinistra». C’è stato un tempo in cui Giorgia diceva: «A destra vorrei più attenzioni ai diritti degli omosessuali». E Paola Concia reagiva così: «Altro che Carfagna, il mio tipo di ministra è la Meloni». Adesso invece in piazza San Giovanni parla di «orchi omosessuali che rubano le identità». E da quando in Ungheria a Budapest si è fatta il selfie con Orbán e gli ha pure consegnato la tessera di Fratelli d’Italia teorizza la democrazia illiberale, la dictablanda, la dittatura indebolita da un po’ di libertà, da gocce di democrazia. In gara con Salvini ha incanaglito i suoi vecchi modelli, Almirante e D’Annunzio, Longanesi e Jünger, Prezzolini e Pound. «Di Salvini sono alleata e concorrente» dice la Meloni che ora lo ha superato nei sondaggi. E con i sessanta sessantesimi del suo diploma alberghiero, ramo linguistico, la sua aria da Alice peronista, la sua capacità di cavarsela in inglese e in francese, e il certificato che le rilasciò Fiorello – «non ti aspetti che una ministra sia così simpatica» – sfida Salvini citando un altro eroe della destra, Italo Balbo: «Mi tengo da nulla se mi considero; ma da molto, se mi vi paragono».
Dunque vola al secondo posto nel gradimento dei sondaggi, che sono, è vero, i fatui oroscopi della democrazia, ma segnalano l’anomalia dell’ascesa personale di Giorgia che trascina il suo partito sino al 8,5 per cento, seminando Forza Italia che scende al 5. Ma, come dicevo, è lei la seconda leader d’Italia. Sta infatti subito dopo Conte, che è però il carro del vincitore, e sta davanti a Salvini, che del selvaggio esibisce anche il fisico rustico e ruvido con lo stile della destra soldatesca e affamata, anche di donne che appaiono e scompaiono come nei romanzacci degli epigoni di D’Annunzio: Pitigrilli e Guido da Verona.
Al confronto Giorgia Meloni è invece la Reginetta sì, ma di Coattonia che è appunto la sua Wonderland, la periferia delle meraviglie dove la nostra “peronista scalza” corre ad ogni spasmo di rabbia sociale, come fece a Torre Maura per difendere e organizzare le rivolte contro i Rom: «Altro che razzisti. Razzisti siete voi che li avete esasperati». In quella Las Vegas senza alberghi né casinò che è la Roma- sud da San Giovanni sino a Ostia, la città che ‘sente’ il mare e frana verso Napoli e la sua camorra di ferocia e guapparia, Giorgia Meloni è stata la nemica dei centri d’accoglienza: Magliana, Trullo, Quadraro, Appio, Quartomiglio, Tuscolano, Torrino, Spinaceto, Tormarancia, Anagnina, La Rustica, Tor Bella Monaca, Don Bosco, Cinecittà, Borghesiana…. Sono tanti gli staterelli criminali senza un centro urbano che hanno sostituito le vecchie periferie delle incisioni di Renzo Vespignani e dei suoi gasometri abbandonati, delle baracche dei ragazzi di vita di Pasolini. Qui la destra sociale ha le sue fortezze, e il suo linguaggio d’odio è molto più efficace del milanese di Salvini e degli impiegati del vaffa, ammaestrati pavlovianamente in Rete. Giorgia Meloni dice che «anche la sinistra radical-chic non capisce più le borgate, dove infatti splende l’antica fiamma tricolore», quella stessa della comunità dei “gabbiani” fondata nel 1980 dal suo pigmalione, il camerata Rampelli, che oggi è l’intellettuale organico di Fratelli d’Italia: «Siamo il primo e il solo partito italiano con una leader donna». Ed è tristemente vero. La Meloni vi aggiunse Guido Crosetto, il gigante che nelle foto la teneva in braccio, e Katia Ricciarelli, cinepanettoni e semivip. E i colonnelli che l’avevano sottovalutata ("calmati, bambina") adesso le obbediscono. Sto parlando di Francesco Storace e del mitico La Russa che, ministro della Difesa negli anni del governo Berlusconi, sembrava l’incarnazione della caricatura del gerarca, con le sue divise militari, le sue collezioni di soldatini e i voli dannunziani sopra Kabul. E però Meloni insiste molto: «Come farvi capire che non siamo fascisti?». Anche Le Pen insiste: «Cosa devo fare per non essere razzista? Sposare un nero, magari malato di Aids?».
Giorgia Meloni non ha sposato un nero. Ma ha un compagno che dice di avere votato sempre Pd. È il padre di sua figlia Ginevra («come omaggio a Lancillotto»), la bimba che la mamma tira fuori come per caso in tutte le interviste televisive, e prima «è per la poppata» e ora «è per farla stare buona». “La sua maternità dolce batte la paternità virile di Salvini”. Ma il papà di Ginevra – lo chiamano “il signor Meloni” – non crede nel matrimonio. Ma Giorgia andò lo stesso al Family day dove annunziò pure che era incinta. Si chiama Andrea Giambruno, è un autore Mediaset, è laureato in Filosofia alla Cattolica, e parla pochissimo. C’è soltanto un’intervista a Luca Telese: «Seguo Giorgia in tutti i comizi. Mi piace mettermi in ultima fila, senza che lei mi veda». E poi: «Io sono favorevole a liberalizzare le droghe, anche quelle pesanti». Ancora: «Svuoterei gli orfanotrofi e darei tutti i bimbi alle coppie arcobaleno». Si nasconde perché è compagno o è il compagno che lei nasconde?
Sembra inventata da un De Amicis di destra la biografia della reginetta di Coattonia. Il padre Francesco, che lei definisce “comunista”, è morto di leucemia due anni fa, ma la figlia non è andata al funerale: «Non mi ha dato nessuna emozione. Come se fosse morto un estraneo». Francesco Meloni aveva abbandonato la moglie e le due figlie quando Giorgia aveva 12 anni. Fuggì con un’altra donna su una barca chiamata “Cavallo pazzo” e si stabilì alle Canarie con la nuova compagna. Mamma Anna, aiutata dalla nonna, ha mantenuto la famiglia correggendo bozze e scrivendo romanzetti rosa. Giorgia crebbe disprezzando il padre e si iscrisse, «anche contro di lui», alla sezione del Msi della Garbatella dopo la morte di Paolo Borsellino, che i reduci missini vantano come radice della loro idea di “legge e ordine”. Giorgia cantava in un gruppo identitario il repertorio dei fasci degli anni settanta – “Forchette, forchette, forchette nazionali /, per guadagnar miliardi senza pene fiscali"- e oggi compone e canta, sulla musica sigla di Holly e Benji, brani satirici «contro il governo delle poltrone».
A quei tempi «dovunque ci fosse un corteo in testa c’era lei», bruciava in piazza i libri della sinistra, e nel mondo di Gasparri e di Alemanno faceva carriera. E intanto lavorava come barista al Piper, cameriera e baby sitter, anche della figlia di Fiorello. E frequentava la nerissima sezione di Colle Oppio vivendo un romanzo di formazione tutto missino, segretaria di Azione Giovani, giornalista al Secolo d’Italia, fidanzati solo di partito, Almirante come campione di democrazia, «siamo ancora oggi i custodi di un patrimonio valoriale che è stata la nostra giovinezza», vibrazioni d’amore ed orgoglio per gli ex picchiatori raccontati sempre come vittime, gli anni Settanta come mito. Sin da bambina ha vissuto di politica, ed è stata allevata come “politica di professione” tra Rauti e Fini. Li ha traditi entrambi perché «sono una che non si mette mai a cuccia». Verso Fini non ha gratitudine: «Tra le ipotesi in campo, quella che si sia rovinato per amore è la più dignitosa». Dio, patria e famiglia, i crocifissi e le scuole cattoliche, la guerra ai gay, ai gender, l’uscita dall’Europa… Giorgia è un’estremista naturalmente di destra che considera Berlusconi (la chiamava «la piccolina») la sbandata più liberale della sua vita. E da quando si è incanaglita esibisce gli insulti come medaglie, le piace essere “burina” che le pare un sinonimo di “popo-lare”, ogni tanto tira fuori le tavole di “Ministronza”, la serie che le dedicò il vignettista anarchico Alessio Spataro quando da ministro girava in “mini”, una biografia a fumetti che comincia con Giorgia che a 5 anni rimproverava i coetanei maschi perché giocavano con le bambole: “A frocio, almeno alla tua pupa faglie fa’ er saluto fascista”. Ma anche questi disegni invece di offenderla hanno finito con l’esaltare la reginetta di Coattonia, hanno contribuito a costruire il personaggio del momento, come già furono Salvini, Grillo, e tutti gli altri. È lei la nuova inquietudine italiana.