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 2019  ottobre 24 Giovedì calendario

Bici, l’eretica irresistibile

«L’Esperto è venuto a casa con me per insegnarmi. Abbiamo scelto il cortile posteriore, per la privacy, e ci siamo messi all’opera. La mia non era una bicicletta adulta, ma solo una puledra, da un metro e venticinque, con pedali accorciati a un metro e venti, e ombrosa, come tutti i puledri. L’Esperto ha spiegato in breve i punti principali della questione, quindi è salito in sella ed ha pedalato un po’ in giro, per mostrarmi quanto era facile. Ha detto che scendere era forse la cosa più difficile da imparare, e che quindi l’avremmo lasciata per ultima. Ma su questo si sbagliava. Si è accorto, con sorpresa e gioia, che tutto quello che doveva fare era di mettermi sulla macchina e togliersi da davanti: ce la facevo da solo a scendere. Pur essendo del tutto inesperto, sono sceso a tempo di record. Lui era da una parte, e spingeva la bicicletta, siamo andati tutti giù con uno schianto, lui sotto, poi io e la bicicletta sopra tutti». 
Solo quel genio spiritoso di Mark Twain poteva descrivere, nel racconto Domare la bicicletta del 1884, la prima esperienza su un velocipede. Esperienza che traumatizzò, al contrario, lo statista Sidney Sonnino che alla seconda lezione non si presentò dicendo che non osava insistere perché «gli causava palpitazioni». E forse solo Stefano Pivato, lo storico già rettore a Urbino e autore di molti libri dedicati a temi apparentemente minori come I terzini della borghesia, Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento o I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, poteva mettere insieme un mosaico di personaggi, panorami sociologici, avventure, curiosità, approfondimenti e aneddoti spassosi come in Storia sociale della bicicletta, che esce oggi per il Mulino. 
«Traverso le viti di una bicicletta si può anche scrivere la storia d’Italia», scrisse un giorno Gianni Brera. Vero. Perfino le «fake-poesie», se vogliamo chiamarle così, possono descrivere un’epoca. Due strofette a caso: «Il tuo corpo divino/ sull’acciaio brunito/ campeggerà qual mito/ del rapido destino». Gabriele d’Annunzio? No, risponde lo storico: «Quella poesia, al di là degli orecchiamenti alla retorica dannunziana, non sembra appartenere al poeta ed è verosimilmente da considerarsi come una trovata pubblicitaria dei produttori di biciclette». 
I quali, appena fiutarono come potesse aprirsi un mercato enorme per i «velocipedi» (ancora oggi la burocrazia italiana li chiama così: «veicoli con due o più ruote funzionanti a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali o di analoghi dispositivi») si buttarono sull’affare. Andando a caccia, ad esempio, dei parroci, dei cappellani, dei pretini di campagna. I quali, oltre ad avere davvero bisogno del nuovo mezzo di locomozione per accorrere a un battesimo o dar l’estrema unzione a un poveretto, sarebbero stati dei formidabili testimonial del prodotto. 
«Vade retro, bicicletta!», tuonò il vescovo di Mantova Giuseppe Sarto, futuro Papa Pio X, in un messaggio alla sua diocesi: «Siccome questa novità minaccia di essere adottata anche da qualcheduno del clero, ordino che se ne astengano affatto gli ecclesiastici di questa diocesi». E da Papa confermò: no. Certo, un grande vescovo come Geremia Bonomelli non era d’accordo: «In questa mia diocesi vi sono parrocchie vastissime, che hanno il circuito di 10, 15, 20, 25 e più chilometri, con buona parte della popolazione che dista uno, due, quattro, sei e più chilometri dalla residenza parrocchiale. Non tutti possono avere cavallo e carrozza, e per questo alcuni parroci e coadiutori, anche di grande pietà, usano delle biciclette per recarsi a visitare gli infermi…» 
Spiega Pivato che la bicicletta, come prima il treno bollato come «opera diabolica» (al che Carducci aveva risposto con l’Inno a Satana) non era vista solo «come simbolo di modernità ma anche di modernismo, cioè di quella corrente riformista in odore di eresia che all’interno della Chiesa cattolica sostiene la necessità di un confronto con la civiltà del Novecento». Neppure la devozione al Papa, però, fu in grado di fermare i preti di campagna. «Può il sacerdote nel caso d’un ammalato grave inforcare la bicicletta nonostante il superiore divieto?», chiede nel 1910 il parroco di un paesino ravennate sul bollettino parrocchiale. La risposta era nella domanda. E un po’ alla volta il divieto evaporò. 
Dal primo velocipede apparso ad Alessandria nel 1867 tra lo stupore generale (l’industriale della birra Carlo Michel l’aveva comprato a Parigi: era tutto di legno e in inglese si chiamava bone-shakers, cioè scuoti-ossa) fino ai tempi più recenti, nel libro c’è di tutto. Il manuale che a fine Ottocento invita i novizi a scegliere una strada larga «almeno sei metri» e «lunga 25 o 30 metri e in discesa». Le pubblicità che, per ovviare al problema dei cani che attaccavano le due ruote, strillavano: «Ciclisti, armatevi! Nelle attuali condizioni della pubblica sicurezza in Italia, un buon revolver è indispensabile». Non mancano consigli più divertenti ancora: «Il principiante dovrà, a poco per volta (…) apprendere a frenarsi co’ piedi» per «la facilità che hanno i caucciù di deteriorarsi». E la donna? Si consiglia «un luogo molto remoto, in campagna magari (…) sul calar della notte». E poi le invenzioni più estrose come «il triciclo Torre Eiffel», una pompa per i pompieri alta quattro metri! 
Perfino Emilio Salgari, che aveva un amico che nel 1895 arrivò in bicicletta fino al Circolo polare artico, ne immaginò una pazza, ma strepitosa: «Un velocipede composto da otto ruote, due più grandi e più solide, le altre eguali, accoppiate a due a due in modo da potersi, all’occorrenza, trasformare in tre biciclette». Ma come dimenticare il milanese Luigi Masetti, «l’anarchico delle due ruote» che da Milano arrivò a Chicago in bicicletta, fatta salva la traversata in mare? 
Certo, lui era un pioniere ma dietro, nei decenni, l’Italia intera scoprì con la bicicletta cosa fosse la possibilità di muoversi, spostarsi, uscire dalla propria contrada, dalla propria città… Nel 1900 c’erano 109.019 biciclette per 23 milioni di italiani, nel 1919 ben 1.363.936, vent’anni dopo 4.935.000. Un aumento straordinario, che accompagnò l’emigrazione, la Grande Guerra (si pensi a Enrico Toti, che aveva perso una gamba sotto un treno e prima di gettare la stampella al nemico aveva girato tutta l’Europa grazie a una bici con un solo pedale), il biennio rosso e le lotte operaie (imperdibile una reclame: «Carlo Marx! Pneumatico dei socialisti italiani. Compagni ciclisti! Provate la gran marca rossa. Invincibile, garantita») e infine la Resistenza. Che vide in bicicletta, come staffette o per portare documenti ai partigiani o agli ebrei in fuga, personaggi formidabili come Gino Bartali o don Primo Mazzolari. Prete sì ma così legato alla sua bicicletta che, pazienza per l’ostilità di qualche Papa, l’aveva pure battezzata: Giannina.