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 2019  ottobre 24 Giovedì calendario

L’attacco al formaggio italiano

Il 23 gennaio scorso Luigi Di Maio si è fatto ritrarre seduto al tavolo di lavoro mentre sbuccia un’arancia. Era un messaggio al Paese attraverso il Blog delle Stelle, l’organo ufficiale di M5S. E riguardava un dettaglio dell’accordo che lui stesso, allora ministro dello Sviluppo, aveva appena concluso con Pechino grazie all’adesione dell’Italia alla Via della Seta: gli agrumi italiani voleranno in Cina. Per Di Maio quella era «una grande vittoria». L’intesa prevedeva che i tarocco e le sanguinelle, coltivati in una fascia di venti chilometri sotto l’Etna, venissero esportati verso Pechino e Shanghai per via aerea. 
In un pomeriggio quegli agrumi diventarono il simbolo della nuova politica estera dell’Italia: fuori dagli schemi tradizionali, sempre pronta a cogliere le occasioni che si presentano nel mondo. 
Ora che è ministro degli Esteri, ma sempre responsabile del commercio, Di Maio avrà notato di recente un altro dettaglio: la seconda economia del mondo si è sì aperta alle arance italiane, ma la prima si è chiusa. Gli Stati Uniti hanno alzato un muro tariffario. Non solo sugli agrumi della Sicilia orientale, ma di tutto il Paese. Dal 18 ottobre, le arance e i limoni sono diventati la prima categoria di frutta a entrare in blocco nella lista dei beni da export per circa 400 milioni di euro soggetti ai dazi punitivi del 25% fissati dagli Stati Uniti. 
L’amministrazione non era obbligata a farlo. Poteva esentare l’Italia dalle sanzioni o poteva iniziare a colpire il made in Italy da centinaia di altre categorie di beni (le misure funzionano «a carosello», ruotando tra beni diversi per massimizzare i danni). Invece sull’Italia la Casa Bianca di Donald Trump ha scelto di partire proprio dal prodotto che Di Maio ha reso emblematico del flirt cinese dell’inverno scorso. Il messaggio della Casa è chiaro: nella rivalità fra Stati Uniti e Cina l’Italia deve scegliere, e se sceglie Pechino pagherà un prezzo. 
Questa volta l’amministrazione americana non si sta muovendo in modo unilaterale. L’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) l’ha autorizzata ad applicare ritorsioni sull’Unione europea per una vecchia storia di sussidi pubblici concessi a Airbus. A differenza di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’Italia non fa parte del consorzio aeronautico europeo, quindi chiede di essere esentata. Il leghista Michele Geraci, sottosegretario di Di Maio nel precedente governo, riferisce di aver ridotto di molto l’impatto delle misure negoziando con l’amministrazione di Washington. 
Ma la prima serie di dazi include il made in Italy per 47 categorie di prodotto. La stessa lista dei beni colpiti rivela molto delle intenzioni di Trump e delle sue priorità. Perché il presidente non opera solo con la diplomazia delle arance. Più della metà dei beni coperti da dazi al 25% coincidono con i migliori formaggi italiani: parmigiano e parmigiano reggiano, mozzarella, pecorino, romano, provolone, groviera, gorgonzola. Viene colpito a tappeto il settore del made in Italy che compete più direttamente con la principale industria del Wisconsin: con 5,8 milioni di abitanti contro 60 milioni, questo Stato americano è testa a testa con l’Italia come quarto produttore mondiale di formaggi, in volume. È specializzato nell’«Italian sounding», il plagio dei marchi: formaggi definiti «asiago», «fontina», «parmesan», «provolone» e un prodotto chiamato «mozzarella» più abbondante (mezzo milione di tonnellate l’anno) di quello italiano. 
Tra il Wisconsin e un po’ di clemenza verso l’Italia, Trump prende il Wisconsin senza esitare. Quello Stato operaio e agricolo gli regalò la Casa Bianca nel 2016, quando lì batté Hillary Clinton per appena 22 mila voti (lo 0,7%). Fu una vittoria a sorpresa, la prima di un repubblicano dal 1984, e garant i dieci grandi elettori che servivano a Trump per diventare presidente. Lui non lo dimentica. Sa che per rivincere nel 2020 non può avere pietà dell’Italia, ma deve curare questo Stato che produce un terzo del formaggio «Italian sounding» consumato negli Stati Uniti. 
Del resto non è chiaro oggi chi possa protestare da Roma. Gli stessi americani se lo stanno chiedendo. Di Maio ha avocato agli Esteri i poteri sul commercio, ma non ha ancora scelto a quale sottosegretario assegnarli. Quel ruolo è conteso fra Manlio Di Stefano (M5S e piuttosto protezionista) e Ivan Scalfarotto (Italia Viva, aperto agli scambi). Dopo quasi due mesi, il governo va avanti con un vuoto di potere in un posto oggi vitale.