Corriere della Sera, 24 ottobre 2019
Un film femminista scuote la Corea
Nasce, e la madre abbozza scuse alla suocera perché è femmina. Va a scuola, si diploma, trova lavoro e marito; lascia il primo, tiene, con sofferenza, il secondo, quando è chiaro che la maternità e la carriera non sono più conciliabili; fra discriminazioni, sensi di colpa e molestie, è afflitta da una depressione che non passa mai. Che le succede?
È la storia di Kim-ji Young, classe 1982: oltre che una descrizione anagrafica è anche il titolo di un romanzo femminista che ha scosso la Corea del Sud vendendo più di un milione di copie nel 2016 e attirandosi moltissime critiche; e ora di un film, che esce in questi giorni e ha riacceso la polemica. I profili social della protagonista, Jung Yu-mi, sono stati inondati di commenti di haters, è partita una petizione per chiedere al ministero della Cultura di vietare il film e i siti di recensioni sono stati riempiti di stroncature preventive.
A Suzy, una popstar notissima in Corea, è bastato mettere un «like» alla locandina del film, su Instagram, per essere bersagliata di messaggi d’odio. Perché? Perché la storia di Kim-ji Young – cognome e nome femminili arcicomuni in Corea, come dire Rossi Maria – è simile a quella di tutte le sue coetanee, connazionali, congeneri. La Corea del Sud dalla turbocrescita economica è uno dei peggiori Paesi al mondo per essere una femmina e lavorare, risulta ad esempio dal Glass Ceiling Index stilato ogni anno dal settimanale Economist; lo stipendio di una donna è un po’ meno di due terzi di quello di un suo omologo uomo; gli episodi di misoginia pubblica sono innumerevoli, anche in politica (alle recenti elezioni della Commissione per il commercio equo, ad esempio, un candidato presidente ha investito la sua rivale, femmina, di critiche perché «ancora single» e perché «non contribuisce alla demografia del Paese»).
Ed è chiaro che il libro, scritto dalla sceneggiatrice televisiva Cho-nam Joo, ha toccato da subito corde sensibili fra le donne coreane, prima, e poi del resto dell’Asia: ha venduto 130 mila copie in tre mesi, un milione in meno di un anno, e i diritti in 18 Paesi, primi fra tutti Cina, Taiwan e Giappone che ne hanno previsto tirature record. Le vendite in Corea erano aumentate rapidamente nel 2018, quando il presidente di un partito progressista aveva regalato una copia del libro al presidente Moon Jae-in in pubblico. E anche allora, il boom si era accompagnato a molte critiche.
«All’inizio pensavo fosse una storia molto coreana», ha detto alla Bbc la traduttrice del libro in lingua inglese, Jamie Chan. «Ma poi l’ho trovata sempre più universale». Dalle scene dell’asilo, dove la piccola Young viene picchiata da un bambino «perché gli piaci», dice la maestra, al ristorante dove con la bambina in braccio rovescia un caffè, e sente un avventore chiamarla «momchung», insulto coreano che sta per «mamma scarafaggio» e indica i genitori che con la scusa dei figli si comportano da cafoni.
Le scene della vita di Young, raccontateci dal suo psichiatra, un uomo, sono autobiografiche: l’autrice del libro ha davvero dovuto lasciare il lavoro quando è nata sua figlia, e l’idea di scrivere il romanzo (in cui ogni scena è corredata da note a piè di pagina piene di statistiche e dati) le è venuta davvero, racconta, un giorno che al parco si è sentita dare della «momchung» da tre yuppies. Ma sono davvero scene solo coreane?