24 ottobre 2019
Essere il figlio di Vincenzo Paparelli
Vincenzo Paparelli. Basta il nome per far calare il silenzio e far virare nuovamente il cielo di Roma al grigio. Al grigio piombo. Quello degli anni bui di una Italia in lotta con sé stessa. L’Italia delle armi divenute consuetudine. Pistole e chiavi inglesi. Sono passati 40 anni da quella maledetta domenica 28 ottobre 1979 ma il tempo non è riuscito né a lenire il dolore né a scalfire il ricordo. Il ricordo di un derby trasformatosi in tragedia. Il sibilo di quel razzo di tipo nautico sparato dalla curva Sud dal diciottenne Giovanni Fiorillo, Tzigano. Il ricordo di un volto pulito diventato prima maschera di sangue e poi di morte. «Nemmeno in guerra avevo visto una lesione così grave» dichiarò il medico che per primo prestò soccorso. Il 28 ottobre 1979 fu il giorno in cui il pallone perse la sua innocenza.
Vincenzo Paparelli era un uomo di 33 anni. Marito. Padre di due figli. Tifoso della Lazio. Vittima di un destino beffardo. Allo stadio quel giorno doveva esserci il fratello. La mano della moglie Wanda e quella sua preghiera straziante «Vincenzo non morire» sono gli ultimi suoi punti di contatto con la vita. All’Olimpico la partita si giocò. Il risultato non ha bisogno di essere ricordato. L’allora arbitro Pietro D’Elia, dopo aver consultato i due presidenti, Lenzini e Viola, decise che era meglio scendere in campo: «C’era un silenzio assoluto – dice nel docu-film di Sky -. Un silenzio che rimbombava e che ancora oggi sento nelle mie orecchie». Fu il capitano laziale Pino Wilson a placare la rabbia dei tifosi biancocelesti: «In quel momento ebbi la fortuna di essere credibile».
A quarant’anni di distanza Vincenzo Paparelli ha assunto i colori della targa ricordo posta sotto la curva Nord, della bandiera con il suo ritratto che sventola ogni domenica e delle tante e tante coreografie dedicategli puntualmente il 28 ottobre. Ma quel volto pulito viene, ancora oggi, sporcato dalle infamanti scritte sui muri di Roma che ogni volta riproducono lo stesso dolore di 40 anni fa. Uno scempio vigliacco che si ripete nel silenzio. Quelle scritte che il figlio Gabriele ha definito «la maledizione della mia vita». «Per anni mi alzavo prima di mia madre e percorrevo la strada che lei faceva per andare al lavoro cancellandole con una bomboletta spray. Ora ci sono i social: i laziali mi avvertono e vado. L’ultima volta a San Lorenzo, nel 2017. Quegli insulti sono contronatura: forse le mie uscite forti sono servite».
Vincenzo Paparelli era un tifoso della Lazio ma suo malgrado diventato martire della follia legata ad un calcio ancora oggi, 40 anni dopo, prigioniero tra la passione e l’odio che genera.
AGabriele aveva solo 8 anni «Mi è rimasto impresso tutto. Un dolore incancellabile. E pensare che quel giorno mio papà non mi volle portare per paura degli incidenti». E poi ancora: «Non è stato bello portare questo cognome. Da sempre combatto contro cori e scritte». Allo stadio Gabriele non va più da anni ma i tifosi della Lazio e non solo non smettono mai di fargli sentire la loro vicinanza. In compenso a tifare la Lazio all’Olimpico ci va spesso sua figlia Giulia di 6 anni. «Perché c’è la bandiera con la foto di nonno?» chiede. «Perché era un grande laziale e gli vogliono bene» risponde Gabriele. La curva Nord da sempre combatte per tenere vivo e pulito il ricordo di Vincenzo. Sabato nella sede degli Irriducibili ci sarà un convegno con giocatori e tifosi che 40 anni fa videro il calcio perdere la propria innocenza.