Vanity Fair, 23 ottobre 2019
Intervista a Sandro Veronesi (su "Il colibrì")
Dopo aver vinto Campiello e Strega, uno degli scrittori italiani più premiati di sempre torna con un libro grandioso in cui pulsano vita e morte, gioia e dolori, nostalgia e futuro. Perché, dice l’autore: «Di ciò che ti accade non puoi mai sapere la ragione».
Laico per scelta: «Fumi pure, faccia quel che vuole, posso aprire la finestra o tenerla chiusa, in fondo ho avuto la sigaretta in bocca fino a un ciuffo di mesi fa», autoironico per necessità: «Sono diventato un signore di sessant’anni che quando si rifugia in campagna, come il Pauli incarcerato di Quei bravi ragazzi di Scorsese, cucina e basta. Sto lì, tra i fumi, ad abbondare con l’aglione che più ne metti e meno sa di aglio e penso ai fatti miei». Di sapori forti, memoria, tradimenti, illusioni, nebbie, notti, albe, tragedie, vitalità, allegria, paradossi, ossimori e tentativi di sfuggire ai millesimi di secondo che cambiano l’esistenza fino a rendere irriconoscibile l’istante precedente è fitto Il colibrì. Come sempre, per darlo alle stampe, Sandro Veronesi ha impiegato tutto il tempo che gli sembrava necessario. Ha descritto mari in cui non si è mai bagnato: «Sulla spiaggia di Bolgheri non ho mai messo piede, ma non è che proprio ogni cosa, come in Caos calmo, possa succedere davvero a Roccamare», inventato disperazioni che non lo hanno sfiorato: «Volevo mettere a fuoco e dare definizione a una messa in scena che fosse intrisa di speranza, ma anche della fine di questa speranza e per farlo avevo bisogno di una famiglia infelice al cui interno germinassero continuamente vani tentativi di felicità. Rifarsi al lato biografico sarebbe stato impossibile perché la mia è stata una famiglia felice. Punto. Me lo ricordo questo nucleo di quattro persone: io, mio fratello Giovanni, che per me è stato sia fratello che sorella, e i nostri genitori. Compatti e felici, che si fosse in pizzeria o si andasse dai nonni bolognesi a Natale. Per trasportarla nel romanzo avrebbe dovuto esplodere per qualche ragione, ma non accadde. I miei morirono poi romanticamente, quasi uno dopo l’altro. Ci dispiacque. Ci rimanemmo male. Ma è un processo naturale che prima o poi tocca a chiunque». Lasciate nell’angolo l’idolatria per Pietro Paolo Virdis e le ascendenze pratesi, Veronesi abita a Roma da quasi un quarantennio. Gli è capitato di correre in soccorso di Paolo Virzì per dargli una coperta nella notte in cui l’appartamento che lo ospitava prese fuoco e di domare gli incendi creativi assorbendo nel rumore e nelle grida del suo stesso fideismo – cinque figli, due matrimoni, la televisione in sottofondo non meno dello sfrigolare del soffritto – tutta la letteratura sua. Da qualche settimana – i cartoni nell’angolo, i bulloni ancora nelle buste – una certa confusione danzante tutta intorno, appena lenita da una teoria di volumi pasoliniani perfettamente ordinati sulle mensole, per la prima volta, Veronesi ha ricavato tra le stanze di casa un rifugio. «La vera novità della mia vita. Ho messo i libri, poi metterò i computer e finalmente rischierò di scrivere in santa pace».
La turba?
«Nelle mie case non ho mai avuto uno studio, una porta chiusa tra me e il mondo, una separazione tra le mie pagine e il casino. Nell’altro modo funzionava, quindi sì, la novità la temo. Quel casino quotidiano portava anche roba buona».
Però c’è silenzio.
«Per ora rimiro gli oggetti. Questo tavolo per esempio. Mi piacerebbe dirle che è qui che ho scritto i miei libri, ma sarebbe una menzogna. Però è un pezzo di passato, è venuto con me da Prato e la sedia, be’ la sedia risale all’epoca in cui sulle pagine non avevo ancora vergato neanche una riga. Sono oggetti che mi confortano, forse per il solo fatto che fino a ieri non sono stati davvero miei».
Anche le vite che descrive nel Colibr“non sembrano
appartenere completamente ai personaggi della storia.
«Solo alla fine del libro, per la prima volta, senza adattarsi, metterci una pezza o accettare quello che hanno deciso gli altri al suo posto, Marco Carrera, il protagonista, fa quello che vuole davvero».
Quanto c’è di lei in questo oculista metodico che vagheggia impossibili amori in via epistolare, redige inventari con la precisione di un archivista e di notte, al tavolo da gioco, va a vedere da vicino quanto spaventa il dèmone del gioco?
«Soltanto l’età. Non sono un colibrì, uno che trattiene le cose, un conservatore, una persona che prova a star ferma con tutte le proprie forze. Non c’entro con Marco Carrera, ma per anagrafe ho il suo sguardo storico sulle cose, sugli anni ’60 e sui ’70. Prenda l’austerity».
Quel 1973, con la crisi petrolifera e le domeniche a piedi, sembra in effetti dipinto da uno che in quel momento c’era.
«Lei non può ricordarlo, ma fu una roba soda. Coprifuoco, lampioni spenti, i programmi televisivi che finivano prima. Con quelle privazioni improvvise c’era un rapporto di non comprensione. “Che cazzo succede?”, ci chiedevamo. “Noi non siamo più i padroni del mondo?”. “Adesso bastan due stronzi e si va tutti a piedi?”».
Nella calma apparente accadono moltissime cose. La perdita di punti di riferimento restituisce il presagio di un dolore, di un lutto incombente, di una tragedia inevitabile.
«Non saprei dire, come quasi in tutti i libri che ho scritto, da dove vengano le immagini primarie. Avevo dentro un dolore, un dolore non solo mio, un dolore soprattutto altrui e dovevo dargli sbocco. Per farlo cercavo una storia familiare che fosse lunga e non raccontata dritto per dritto».
Come mai?
«Perché altrimenti tutto quel dolore non sarebbe stato sopportabile. Ci faccia caso: nel libro, ai momenti drammatici, il lettore arriva sapendo già cosa succederà. Ho saltabeccato tra passato e futuro, ho cambiato i piani, le prospettive, forse persino le intenzioni degli stessi personaggi, in corsa».
I suoi libri hanno sempre una genesi?
«Se Il colibrì ce l’ha, non la conosco. Avevo delle scene in testa, come mi accade spesso, ma mi manca la consapevolezza concreta di come sia nato davvero. Il che mi fa pensare che me lo stia portando dietro da sempre. Vent’anni fa, quando rispondevo a questa domanda e mi chiedevano della Forza del passato una risposta ce l’avevo».
E che risposta era?
«Una risposta falsa. Costruita. Inconsciamente reticente. Dicevo che avevo fatto un sogno in cui mio padre si rivelava essere un terrorista basco sotto copertura e che io scoprivo per caso che tra sogno e realtà c’era un’aderenza assoluta. In realtà in quel romanzo dicevo a me stesso che il mio matrimonio era finito. Forse l’avevo capito da solo, ma avevo preferito scambiare i segnali per un’ispirazione letteraria».
Poi il suo matrimonio finì davvero.
«Subito dopo la pubblicazione del romanzo, quando tutti pensavano che il libro fosse una dichiarazione d’amore perenne per la moglie che avevo allora. Sentivo che le cose non stavano andando nella direzione sperata, ma di quella separazione, mentre scrivevo, non esisteva ancora la forma. Questa volta ho immaginato un romanzo diverso, di cui non ho saputo niente fino alla fine, ma come Marco Carrera ho rischiato e sono andato a vedere le carte. Come sempre, alla fine è arrivato il treno e mi ha preso in pieno».
In che senso?
«Mentre scrivi, con la coda dell’occhio, vedi sempre un treno avvicinarsi a velocità sostenuta. Ignori il fumo, gli avvisi, il macchinista che ti avverte dell’arrivo e ti fai travolgere. Potresti spostarti, metterti di lato, salvarti persino. Ma sei rimasto lì a scrivere».
È un libro in cui, attenuati dall’umorismo, compaiono morte, lutti, rimozioni impossibili.
«Forse perché negli altri romanzi la morte non c’è o c’è molto meno. Caos calmo comincia con una morte, ma lì non c’è nemmeno il lutto e al suo posto si fa spazio lo strano comportamento di Pietro Paladini. Il vedovo si ispira alla sua figliola di dieci anni, una bambina per cui la morte non esiste e Pietro la segue pur di non farci i conti neanche lui. Si vede che il grasso delle bistecchine che avevo messo da parte alla fine l’ho bruciato. Ed è naturale, perché se ometti di trattare la morte con tutto quel che comporta per tanti anni, è persino inevitabile che tu quel senso di morte te lo porti dietro».
A un certo punto ha trovato spazio.
«L’ho trascurato in passato e infine si è fatto largo. Sono andati via i miei genitori e con loro, nel tempo, tanti amici. È democratica la morte, colpisce tutti. La telefonata che racconto nel Colibrì, quello squillo atroce nella notte, è un avvenimento che tocca tantissime persone ogni giorno. Vai al mare spensierato, torni ed è successo l’irreparabile».
Nel libro, come in un’epidemia ritmata dall’ineluttabilità, si ammalano tutti. E quella parola impronunciabile, cancro, travolge tutti a iniziare da Marco Carrera.
«Avevo in testa la vita di questo personaggio, apparentemente inutile e piena di sofferenza che poi alla fine è riscattata da una creatura quasi divina. Non volevo farla troppo lunga e avevo deciso che Marco sarebbe morto a 70 anni di cancro. Era un argomento che conoscevo perché i miei genitori erano morti così per cui nel caso avessi deciso di raccontare la loro battaglia, una battaglia universale che ripete liturgie e paradigmi quasi sempre identici ovunque e a qualsiasi latitudine, avrei saputo il fatto mio. Fatto sta che dopo un anno e mezzo che scrivevo, scoprendolo davvero per caso, mi sono ammalato per davvero io».
E cosa ha fatto a quel punto?
«Mi sono fermato. Ho lasciato il libro in un angolo e mi sono curato. Per un po’ ho anche ipotizzato di buttare tutto
e di ripartire con un’altra storia, poi una volta guarito mi son detto: “Sicché, che si fa?”. Ho provato a dimenticarmi di quel che avevo passato e ho ripreso le pagine che avevo quasi dimenticato. Un anno senza scrivere non è stata una passeggiata, ma alla fine è andata come meglio non poteva. Per me e per il libro».
Riesce mai a capire se ha scritto un buon libro?
«No, ma siccome impiego tanto tempo a scriverlo, quando lo licenzio sono convinto di aver fatto il meglio possibile. Di solito sono molto contento di aver finito e di come è venuto. Anche perché fino a quando non sono soddisfatto prendo tempo, perdo tempo e ovviamente perdo anche soldi».
Che rapporto ha con l’autocritica?
«Sa qual è la verità? Che il destino di un libro è insondabile. Ero davvero contento di Venite venite B-52. Mi sembrava profetico, attuale, persino rivelatorio. Spiegava la manipolazione delle masse attraverso la tv, anche se più che a Silvio Berlusconi mi ero ispirato a Mendella».
Invece?
«Invece, a parte Renato Barilli che un paio d’anni dopo la pubblicazione mi spedì un articolo mai uscito su la Repubblica in cui elogiava il libro, non se lo filò nessuno. Ma nessuno nessuno, tanto che l’anatema dura ancora oggi. È l’unico mio scritto che non sia mai stato tradotto all’estero, il vero anti-Caos calmo. Tutta la fortuna che ha avuto quel titolo l’ha pagato Venite venite B-52. Ero orgoglioso, mi sembrava di aver superato l’asticella dei miei limiti. Forse ho peccato di presunzione, ma sia come sia, dipende sempre dagli altri».
Si cruccia?
«Ma no, non si valuta mica la felicità da queste cazzate. Va bene l’introflessione: ma non esageriamo».
Il primo momento di felicità dell’età adulta se lo ricorda?
«Da ragazzo non saprei, forse la Dunlop con le corde di budello con la quale giocava John McEnroe che mio padre mi regalò a 14 anni. Dopo, più tardi, sicuramente la telefonata che ricevetti a Prato, quando Theoria decise di pubblicare il mio primo romanzo. Ero a casa dei miei, mi telefonò Paolo Repetti: “Complimenti, abbiamo deciso di uscire l’anno prossimo”. Feci il vago con mio padre: “Vado a fare un giretto”, montai a bordo del Maggiolino nero di terza mano che avevo – velocità massima 120 km orari – misi la prima musicassetta che trovai, Iggy Pop, e mi feci Prato-Barberino,
Barberino-Prato a tutta velocità urlando di felicità pura, una felicità tutta mia, perché non l’avevo detto ancora a nessuno».
Fu la gioia più grande della sua vita?
«No di certo, ma la febbre di quel viaggio, quei versi in loop urlati a squarciagola: “I’m a real wild one, wild one, wild one, wild one”a volte neanche l’amore ha saputo restituirla. Non so perché, forse era l’età. Avevo 28 anni ed era ora che combinassi qualcosa nella vita».
Quanto è stato importante osservare nel suo mestiere?
«La prima forma di ammirazione autonoma che ho sviluppato è stata nei confronti di alcune persone che mi folgoravano con l’osservazione. Una era la prima fidanzata. Eravamo quasi coetanei e siamo ancora molto amici. Lei era una così. Aveva uno sguardo assoluto, io ero sbalordito. È stato un grande amore. Aveva tutta la mia ammirazione. Mi dicevo: “Anche io voglio vedere le cose così”. Non credo di averle mai detto niente del genere. Può farglielo sapere?».
Ma lei cosa ha capito dell’amore?
«Che è una cosa molto pericolosa. Dentro a quella parola metti le follie che compi, le bugie che sei in grado di pronunciare e anche l’infingimento più vile. Perché? Perché ti sei innamorato. Uno psicanalista a un amore così darebbe un’interpretazione non dissimile dal tumore, dal veleno, dall’intossicazione. Nessun innamorato va dal dottore, ma chi si perde per amore sta subendo un’aggressione esterna e interna che tende a modificare in maniera sostanziale la sua identità e il suo comportamento. Se non sei quadrato e forte, magari un po’ bloccato e impedito, ma al contrario magari sei agile, può partire veramente un pericoloso processo che non sta né in cielo né in terra: si uccide per amore, si stalkera per amore, si tarpano le ali ai figli per amore. È sempre amore. È tutto amore. Questa parola così assoluta mi fa paura».
E della vita invece?
«Che devi saper accettare che di molte cose importanti che ti accadono non saprai mai il perché. Succedono senza che tu abbia la scientifica certezza del motivo per cui sono successe: per cattiveria, per culo, per casualità, per bontà di qualcuno che non conosci e non conoscerei mai, per un battito di una farfalla a Tokyo o di un uragano a Chicago».
Ad Aldino Mansutti, nel suo libro, tre centesimi di secondo costano la vita. Sta percorrendo l’Aurelia felice sulla sua Guzzi, si stacca una pala meccanica da un aereo di soccorso e lo travolgono 170 litri di acqua.
«Sbocciato, come un birillo, da un momento all’altro. Che ragioni trovi per quello? Non c’è spiegazione. Ogni cosa decisiva nella vita che ti sorprende ti pone sempre un bivio. Da che parti vuoi stare: dalla parte della vita che è così, a volte ingiusta, sempre inafferrabile a partire dal significato del destino. Oppure dall’altra parte. Dal lato in cui pretendi di controllare tutto, ti illudi di decidere tu, e intanto ti inaridisci e muori. Ogni volta che una benna si stacca e colpisce qualcuno tu devi decidere: da che parte sto? Dal lato della benna o di quello che vuole sapere perché? Io sto dalla parte della benna. Quella è la vita. Vienimi addosso, quando tocca a me, tocca a me. Però fino a quando non muoio, me la godo».