La Lettura, 20 ottobre 2019
Da "Lungo petalo di mare" di Isabel Allende (Feltrinelli)
Il piccolo soldato apparteneva alla Quinta del Biberón, la leva dei ragazzini reclutati quando ormai non erano più rimasti né giovani né vecchi per la guerra. Víctor Dalmau accolse lui e gli altri feriti che senza molti riguardi, a causa della fretta, vennero estratti dal vagone merci e poi distesi come fasci di legna sulle stuoie che ricoprivano la pavimentazione di cemento e pietra della Estación del Norte ad attendere che altri veicoli li trasportassero negli ospedali dell’Esercito dell’Est. Era immobile, con l’espressione tranquilla di chi ha visto gli angeli e non teme più nulla. Chissà per quanti giorni era stato sballottato da una barella all’altra, da una stazione di posta all’altra, da un’ambulanza all’altra, fino ad arrivare in Catalogna su quel treno. Alla stazione c’erano diversi medici, sanitari e infermiere che accoglievano i soldati, mandavano subito i casi più gravi all’ospedale e smistavano gli altri a seconda delle ferite riportate — gruppo A le braccia, B le gambe, C la testa e così via in ordine alfabetico — e li indirizzavano con un cartello appeso al collo al luogo corrispondente.
I feriti giungevano a centinaia; bisognava fare diagnosi e prendere decisioni nel giro di pochi minuti, ma il trambusto e la confusione erano solo apparenti. Tutti venivano presi in carico, tutti ricevevano assistenza. Chi era destinato in chirurgia veniva portato al vecchio edificio dell’ospedale Sant Andreu a Manresa, quelli che avevano bisogno di essere ricoverati venivano mandati in altri centri, e c’era anche chi era meglio che fosse lasciato dove stava, perché non si poteva fare più nulla per lui. Le volontarie inumidivano le labbra dei feriti, parlavano loro a bassa voce e li cullavano come fossero i propri figli, sapendo che da qualche altra parte c’era un’altra donna a confortare il loro figlio o il loro fratello. Più tardi i barellieri li avrebbero portati al deposito cadaveri. Il piccolo soldato aveva un buco nel petto e, dopo averlo visitato velocemente senza riuscire a sentirgli il polso, il medico stabilì che era troppo tardi per qualunque tipo di intervento e che non aveva nemmeno più bisogno di morfina né di conforto. Al fronte gli avevano coperto la ferita con uno straccio, l’avevano protetta con un piatto di ottone a rovescio e lo avevano fasciato con una benda, il tutto già da diverse ore o diversi giorni o diversi treni, impossibile saperlo.
Dalmau si trovava lì per assistere i medici; avrebbe dovuto obbedire all’ordine di lasciar perdere il ragazzino per dedicarsi al ferito successivo, ma pensò che se era sopravvissuto al trauma, all’emorragia e a tutti quegli spostamenti fino ad arrivare a quella banchina della stazione, la sua voglia di vivere doveva essere molta ed era un peccato che si fosse arreso alla morte proprio all’ultimo momento. Rimosse con cura lo straccio e constatò meravigliato che la ferita aperta era pulita come se gliela avessero disegnata sul petto. Non riuscì a spiegarsi come il colpo avesse distrutto le costole e parte dello sterno senza spappolare il cuore. Nei quasi tre anni di esperienza durante la Guerra civile di Spagna, prima sui fronti di Madrid e Teruel e poi all’ospedale di evacuazione, a Manresa, Víctor Dalmau credeva di aver visto di tutto e di essere diventato immune dalle sofferenze altrui, ma non aveva mai visto palpitare un cuore dal vivo. Affascinato, osservò gli ultimi battiti, sempre più lenti e irregolari, fino a che non si fermarono del tutto e il piccolo soldato morì senza nemmeno emettere un sospiro. Per un breve istante Dalmau rimase immobile a contemplare la cavità rossa dove ormai non batteva più nulla. Fra tutti i ricordi della guerra, questo sarebbe stato il più vivido e ricorrente: il ragazzo di 15 o 16 anni, ancora imberbe, sporco di guerra e di sangue secco, disteso su una stuoia con il cuore in bella vista. Non sarebbe mai riuscito a spiegarsi per quale motivo decise di introdurre tre dita della mano destra nella spaventosa ferita, di avvolgere l’organo e di comprimerlo varie volte, in modo ritmico, con calma e naturalezza, per un lasso di tempo impossibile da ricordare, forse 30 secondi, forse un’eternità. E allora sentì che il cuore tornava a palpitare tra le sue dita, all’inizio con un tremito quasi impercettibile e poco dopo con forza e regolarità.
«Ragazzo mio, se non lo avessi visto con i miei occhi, non ci avrei mai creduto», disse in tono solenne uno dei medici che si era avvicinato senza che Dalmau se ne fosse accorto.
Poi chiamò i barellieri urlando e ordinò loro di portare via il ferito il più in fretta possibile, perché era un caso speciale.
«Dove ha imparato questa manovra?», domandò a Dalmau, non appena i barellieri si furono portati via il piccolo soldato, cereo ma vivo.
Víctor Dalmau, che era di poche parole, in due frasi lo informò che era riuscito a frequentare tre anni di Medicina a Barcellona prima di partire per il fronte come ausiliare sanitario.
«Dove l’ha imparata?», ripeté il medico.
«Da nessuna parte ma ho pensato che tanto non c’era niente da perdere...».
«Vedo che zoppica».
«Femore sinistro. Teruel. Sta guarendo».
«Bene. Da ora in poi lavorerà con me, qui sta solo perdendo tempo. Come si chiama?».
«Víctor Dalmau, compagno».
«Non si rivolga a me così. Non mi chiami compagno, ma dottore, e non le venga in mente di darmi del tu. Tutto chiaro?».
«Tutto chiaro, dottore. E che la cosa sia reciproca. Può chiamarmi signor Dalmau, ma gli altri compagni la prenderanno malissimo.»
Il medico accennò un sorriso. Il giorno seguente Dalmau iniziò a esercitarsi nella professione che avrebbe determinato il suo destino.
Víctor Dalmau seppe, come lo seppe tutto il personale del Sant Andreu e quello degli altri ospedali, che l’équipe di chirurghi ci aveva messo 16 ore a resuscitare un morto, che era uscito vivo dalla sala operatoria. Miracolo, dissero molti. Progressi della scienza e la costituzione da cavallo del ragazzo, ribatterono coloro che avevano rinunciato alla fede in Dio e nei santi. Víctor si ripropose di andarlo a trovare ovunque lo avessero trasferito, ma nella frenesia di quei tempi sarebbe poi stato impossibile tenere il conto degli incontri mancati, dei presenti e dei dispersi, dei vivi e dei morti. Per un certo periodo sembrò che si fosse dimenticato di quel cuore che aveva tenuto in mano, perché la vita gli si complicò molto e altre questioni urgenti lo tennero occupato, ma alcuni anni dopo, dall’altra parte del mondo, l’avrebbe ritrovato nei suoi incubi; da quel momento il ragazzo gli avrebbe fatto visita ogni tanto, pallido e triste, con il cuore esanime su un vassoio. Dalmau non si ricordava il suo nome, o forse non lo aveva mai saputo, e lo soprannominò Lázaro per ovvie ragioni, ma il piccolo soldato non si dimenticò mai del suo salvatore. Non appena riuscì a mettersi seduto e a bere dell’acqua da solo, gli venne raccontata la prodezza di quell’infermiere della Estación del Norte, un certo Víctor Dalmau, che l’aveva fatto tornare indietro dal regno della morte. Lo subissarono di domande; tutti volevano sapere se il Paradiso e l’Inferno esistessero veramente o se si trattava solo di un’invenzione del clero per seminare la paura. Il ragazzo si ristabilì prima della fine della guerra e due anni dopo, a Marsiglia, si fece tatuare il nome di Víctor Dalmau sul petto, sotto la cicatrice.
Una giovane miliziana, con il berretto messo sulle ventitré per cercare di compensare la bruttezza della divisa, aspettava Víctor Dalmau sulla porta della sala operatoria e quando lui uscì, con una barba di tre giorni e il camice sporco, gli passò un foglio piegato con un messaggio delle centraliniste. Dalmau era in piedi da molte ore, gli faceva male la gamba e si era appena reso conto, dal profondo brontolio del suo stomaco, che era dall’alba che non mangiava. Era un lavoro faticosissimo, ma era grato dell’opportunità di imparare dai migliori chirurghi di Spagna. In altre circostanze uno studente come lui non avrebbe potuto affiancarli, ma a quel punto della guerra gli studi e i titoli valevano meno dell’esperienza e di quella lui ne aveva in abbondanza, come decretò il direttore dell’ospedale quando gli permise di fare l’assistente in chirurgia. A quell’epoca Dalmau poteva lavorare per quaranta ore di seguito senza dormire, grazie al tabacco e al caffè di cicoria, e senza badare al fastidio alla gamba. Quella gamba gli aveva risparmiato il fronte consentendogli di partecipare alla guerra dalle retrovie.
(traduzione di Elena Liverani).