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 2019  ottobre 23 Mercoledì calendario

I neri non possono più dirsi “negro”

Negro. La scriviamo subito (la parola negro) perché dagli Stati Uniti rimbalzano notizie paradossali circa l’uso di questo termine, e, soprattutto, perché certe consuetudini anglosassoni spesso non fanno che anticipare degli orientamenti che nell’Occidente di retroguardia (l’Italia) si presentano poi con puntuale ritardo: ma si presentano. Non che il biasimo per chi adotti quest’espressione (ancora presente sui vocabolari) non sia da tempo, anche in Italia, una notissima regola del politicamente corretto: ma dire «negro», di norma, non produce ancora conseguenze tipo licenziamenti o allontanamenti da società sportive e non. Da noi, al limite, ti cacciano da qualche social network o ti arriva un esposto dell’Ordine dei Giornalisti. Negli Stati Uniti invece è diverso.

LINGUAGGIO DA PALESTRA
Esempio numero uno. La direttrice di una squadra femminile di basket professionistico, i Los Angeles Sparks, è stata licenziata all’inizio del mese perché in un discorso rivolto alle giocatrici ha appunto usato la parola «negro». Facciamo notare, anzitutto, che l’espressione è talmente innominabile da non comparire neppure negli articoli americani che ne parlano: viene definita «N-word». Il secondo dettaglio è che questa direttrice generale è negra, o nera che dir si voglia. Il terzo aspetto è che questa direttrice, che si chiama Penny Toler e che ricopriva l’incarico da vent’anni, secondo varie testimonianze non ha usato il termine in forma spregiativa o rivolta alle giocatrici: l’ha usato, in generale, all’interno di un discorso vivace e motivatore dopo una sconfitta coi Connecticut Sun nelle semifinali del Wnba, la lega professionistica femminile degli Usa. Notare che la Lega esiste dal 1997 e che Penny Toler, ai tempi giocatrice proprio dei Los Angeles Sparks, segnò il primo canestro della storia della Wnba e divenne direttrice dopo essersi ritirata nel 1999. Da allora, la sua squadra ha vinto tre campionati e ha raggiunto gli spareggi finali 18 volte. Ora l’hanno mandata via perché ha detto negro. Lei ha detto solo: «È un peccato che io abbia usato quella parola. Non dovrei. Nessuno dovrebbe». Passiamo al secondo esempio, e qui vi invitiamo a leggere con attenzione perché è roba da capogiro. In sostanza, in una scuola del Wisconsin, una guardia giurata negra di 48 anni è stata licenziata perché, nel dire a uno studente negro di non usare la parola «negro», ha pronunciato la parola «negro». Rileggete, se necessario. Si chiama Marlon Anderson e il caso risale al 9 ottobre scorso, quando i suoi superiori l’hanno invitato a occuparsi di uno studente ribelle il quale, per tutta risposta, ha cominciato a insultarlo e a chiamarlo «negro» per una quindicina di volte, dopodiché la guardia ha risposto «non chiamarmi negro» per altrettante volte. Quindi ha detto anche lui «negro», e la scuola (West High School, a Madison) una settimana dopo l’ha licenziato dopo 11 anni. Motivo ufficiale: la politica di tolleranza zero del Metropolitan School District circa un eventuale linguaggio dispregiativo del personale. Poi, non essendo ancora tutti rinscemiti, qualcuno ha cominciato a protestare. Qualche decina di studenti ha improvvisato uno sciopero contro il licenziamento, e la notizia ha cominciato a circolare. È diventata un piccolo caso nazionale e vi evitiamo gli strascichi, tipo la cantante Cher che si è offerta di pagargli le spese legali, cose del genere. Morale: dopo un po’ di teatrino formale e mediatico, il distretto ha deciso di riassumerlo, e lunedì Marlon ha scritto «Sono tornato!!» sulla sua pagina Facebook. Nota: solo l’anno scorso, almeno sette impiegati dello stesso distretto sono stati licenziati per aver usato espressioni ritenute razziste. Ma non sono diventate un caso nazionale, e ignoriamo il colore della loro pelle. Seconda nota: non abbiamo commenti da fare.

RITARDO CULTURALE
Preferiamo serbarli per quando servirà da noi, al di qua dell’Atlantico. Siamo ancora in una fase involuta: abbiamo ancora il problema di spiegare – chessò – a un ghanese che «negro» un tempo era una bella e normale parola, ma che poi è scaduta ed è diventata nero (black) che poi è diventata afroasiatico o afroamericano (sette sillabe) prima di acquietarsi sul demenziale extracomunitario o immigrato di colore, espressione che peraltro ai negri non piace. Qualcuno di noi, impunito, continua a scrivere negro negli articoli e addirittura a farci dei titoli di giornale. Nella maggioranza dei vocabolari, come detto, la voce riporta «Chi appartiene alle diverse razze del ceppo negride, originarie del continente africano». Ma noi siamo in ritardo culturale, con poca o nessuna voglia – nel nostro caso – di accelerare.