il Giornale, 23 ottobre 2019
Oliviero Diliberto: «Abbiamo fallito»
No, non è più cosa. Oliviero Diliberto lo ha capito sei anni fa, dopo il naufragio, la batosta elettorale di cui porta ancora i segni. Perché insistere? Meglio ritirarsi, farsi una second life. «Una scelta logica, obbligata. La mia parte fu sconfitta disastrosamente». Lui poi per navigare aveva pure scelto il partner sbagliato, Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia: il presuntuoso movimento dell’ex pm fece cilecca, la soglia di sbarramento rimase lontana e il leader dei Comunisti italiani, che era capolista per il Senato, finì inghiottito nel gorgo: fuori dal Parlamento, cancellato dalla geografia del Palazzo, dimenticato in fretta. Qualche mese più tardi, quando rimise in piedi un Partito comunista, andò persino peggio. Da allora Diliberto, ministro della Giustizia del governo D’Alema, ha dedotto che era il caso di lasciare perdere. «La mia generazione ha fallito. Il suo unico dovere morale è scomparire». Infatti, a differenza di altri, è sparito. Basta comizi, via dalla politica, il professore è tornato in cattedra. E con un certo successo: prima ha aiutato il presidente Xi Jinping a inserire il Diritto romano nel codice civile cinese, poi si è presentato alle sue ultime elezioni. E stavolta le ha vinte.
Roma, università La Sapienza, facoltà di Giurisprudenza. Le scale sono le stesse dove quel 16 marzo del 68 Giorgio Almirante si fece fotografare accanto a un gruppo di neofascisti pronti a una spedizione punitiva, adesso però ci sono solo ragazzini che tra una lezione e l’altra si godono il sole di ottobre e distribuiscono improbabili opuscoli. Si sale la rampa, si attraversa un atrio affollato ma ordinato e, alla prima porta a destra, eccoci nel nuovo ufficio di Diliberto, la presidenza, dove ancora non si è del tutto insediato. Qui, solo tre settimane fa, l’ex segretario del Pdci ha trionfato, battendo in un duello tutto accademico l’altro candidato Cesare Pinelli 63 voti a 45, e ora è il nuovo preside di Legge. «La politica è la mia passione, tuttavia insegnare è la professione che amo».
La politica, appunto. Il giovane Oliviero, oggi 63 anni, cagliaritano, ne fu «folgorato» in quarta ginnasio dalla lettura di un volantino, durante l’autunno caldo del 69. «Non ne avevo mai visto uno prima». Fece carriera, in breve tempo era già segretario provinciale della Fgci. «Da ragazzo volevo cambiare il mondo – ha scritto in un blog – e non ci sono riuscito. Però, a differenza di altri, che sono stati cambiati dal mondo, io non ho cambiato casacca». Infatti nel 1991 non seguì la svolta di Occhetto e con Armando Cossutta e Fausto Bertinotti diede vita a Rifondazione comunista. «Non accettavo che il Pci potesse sciogliersi». Nel ’98 la seconda scissione. Bertinotti staccò la spina all’Ulivo, il governo Prodi cadde, Cossiga si diede un gran da fare perché bisognava intervenire in Kosovo, D’Alema entrò a Palazzo Chigi alla guida di un esecutivo di centro-sinistra, col trattino, il Pdci si staccò da Rifondazione e Diliberto diventò Guardasigilli: uno dei suoi primi atti, far tirare fuori dagli scantinati la mitica scrivania di Palmiro Togliatti. «Persino Nicolò Ghedini – ha raccontato al Corriere – che non è un bolscevico, disse che ero stato un buon ministro, anzi il migliore».
Un’altra vita. Diliberto è stato parlamentare dal 1994 al 2008, ma adesso che è fuori sostiene di non avere nessuna nostalgia. La sinistra, quella che intende lui, è finita, polverizzata, «annientata dal voto del 4 marzo 2018». Sul Pd non conviene scommettere un euro perché non si possono «tenere insieme Gramsci, Kennedy, Luther King e Don Milani». Quanto ai grillini, ne ha ribrezzo, «il peggio che ci potesse capitare». Ce l’ha in particolare con il giustizialismo dei 5s: «L’idea che chiunque abbia fatto politica è un delinquente a prescindere, contraddice tutti i valori della democrazia rappresentativa dai tempi di Pericle a oggi».
Meglio, molto meglio la seconda vita, che in realtà è sempre stata la principale. Tranne i due anni da ministro, Diliberto non ha mai smesso di insegnare. «Tenere il corso di Diritto romano alla Sapienza – si confessa – mi ha aiutato a non perdere il contatto con il mondo reale e le giovani generazioni. Lezioni, tesi di laurea, esami, dialogo continuo: di questo sono particolarmente orgoglioso, più di tanti altri incarichi che ho avuto».
Alcuni prestigiosi, come quello del governo di Pechino. Dal 1998, insieme al professor Sandro Schipani, Diliberto ha cercato di far digerire il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano ai nipotini di Mao. Ha insegnato all’Università Zhongnan of Economics and Law di Wuhan, terza città della Cina. Ha allevato una generazione di giuristi con il compito di scrivere il codice civile, e cioè trapiantare «in un Paese giuridicamente vergine, comunista, enorme, complesso, concetti come la proprietà, l’usufrutto, la successione, la compravendita, la proprietà intellettuale per libri e brevetti. Hanno dovuto creare i notai». E i diritti? «Arriveranno anche lì, per processo naturale».