il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2019
Ettore Scola raccontato dalle figlie
L’indifferenza per i premi, confidata a Daniel Pennac: “’Tutti questi premi…’ mi disse. ‘Lo sai cosa ne faccio?’ Non lo sapevo. ‘Li metto sul terrazzo e li guardo ossidarsi con il tempo’”. Le battute che diventano “lessico familiare: andato dal dentista con un ascesso dolorosissimo, Totò trova invece del suo vecchio medico di fiducia, il di lui figlio fresco di laurea. Il ragazzo, palesemente incapace, annaspa, e Totò bofonchia: ‘Chiamiamo il babbo!’. Citazione che papà ogni volta che qualcuno si apprestava a fare qualcosa senza esserne all’altezza, faceva scattare puntuale: ‘Be’, chiamiamo il babbo’. E oggi ce lo siamo dette da sole”.
Il 19 gennaio del 2016 Paola e Silvia non perdono il regista di C’eravamo tanto amati, Brutti, sporchi e cattivi, La terrazza, ma il padre: Ettore Scola. Con Chiamiamo il babbo non si limitano a mettere su carta l’affetto, a riabbracciare il genitore cinefago e cinesenziente – di fronte a domande assurde ribatteva come l’Alberto Sordi di Riusciranno i nostri eroi?: “Ragioniere, io neanche le rispondo!” – e a rivivere le giornate particolari insieme. Fanno di più, anzi, di meno: levano il piedistallo, sgombrano gli altarini e si concedono il primo privilegio del testimone, la sincerità. L’hanno amato, ricambiate, ma le 288 pagine del memoir non sono riconciliate, non elidono né eludono chi fosse il loro illustre babbo: “Era a disagio sotto i riflettori e pativa enormemente la ribalta, così per mascherare l’imbarazzo mostrava solo i suoi lati peggiori (soprattutto nelle interviste), risultando arrogante, superbo e molto antipatico. Ma per fortuna non concedeva molte interviste”.
È letteralmente cinéma de papa (da pronunciarsi come i francesi facevano con il cognome, Scolà), ma la famiglia è allargata: da Sergio Amidei, che “una volta schiaffeggiò pubblicamente la moglie di un grande regista perché aveva detto che la politica italiana era ‘tutto un magna magna’” a Vittorio Gassman, “nei suoi occhi neri – ricorda Silvia, che ne era segretamente innamorata – si intuiva un grande amore per la vita ma anche una forte vena di malinconia, la stessa che poi lo ha portato alla disperazione”, passando per Marcello Mastroianni e Sophia Loren, cui “papà aveva lo scapriccio, si direbbe a Trevico, di dare ruoli che fossero il più possibile lontani da loro”.
Ma Chiamiamo il babbo va oltre, ha l’ardire di cristallizzare una certa tendenza del cinema italiano tutto, sottotitolo – nostro – “Più dell’antiberlusconismo potè la stanchezza”. Nato sceneggiatore, restio alle riprese “che lo affaticavano”, Scola “ogni tanto chiamava in causa anche la Chiesa: ‘Adesso possono ritirarsi a vita privata anche i papi’”. Dopo Concorrenza sleale, Paola e Silvia stavano scrivendo con lui un altro film prodotto da Medusa: Un drago a forma di nuvola. Da girarsi tra Parigi e Cinecittà, con Gerard Depardieu e Nastassja Kinski: “Sarebbe stato l’ennesimo Kammerspiel, quel teatro da camera che papà tanto amava”. Ma un po’ l’età, un po’ la fatica, un po’ “non so chi ha detto che ogni regista fa un film di troppo, e allora basta non lavorare a quello”, Ettore non aveva voglia, e trasformò l’occasione fornitagli su un “piatto d’argento da Silvio Berlusconi, all’epoca imprenditore cinematografico con Medusa e proprietario di Mediaset oltre che presidente del Consiglio, che in risposta a quanti lo accusavano di imporre in Italia un regime oligarchico, un giorno dichiarò che la propria democraticità si poteva misurare con il fatto che produceva film di ‘registi come Scola’”. Era il 2002, diciassette anni dopo le figlie squarciano il velo: “A Ettore non parve vero e controdichiarò subito, chiamando l’Ansa, che interrompeva all’istante la lavorazione (…). La pesantezza di quel conflitto di interessi era insostenibile: ‘Quando Berlusconi smetterà di fare politica, io ritornerò a fare film con lui’”. Il conflitto d’interessi, invero, era anche del regista: “Senza più alcun senso di colpa poté godersi la poltrona, i classici greci da rileggere e da tradurre, e i suoi nipoti con i quali finalmente poteva passare molto tempo”. Già, il tempo: “A un certo punto il discorso cadde lì, dove il dente duole, e col cuore in mano Ivano (il regista De Matteo, ndr) disse: ‘Ettore, ma te posso chiede ’na cosa? Perché non vuoi più fare film?’. ‘Ho cambiato orari’”.