la Repubblica, 4 ottobre 2019
Su "Scary Stories to Tell in the Dark" di Andre Øvredal, con un’intervista a Guillermo Del Toro
Sarà uno dei grandi appuntamenti della Festa del Cinema di Roma, subito prima di uscire in sala, il 24 ottobre, Scary stories to tell in the dark, regia del norvegese Andre Øvredal e prodotto da una delle personalità più amate di Hollywood, Guillermo Del Toro. Il regista messicano, premio Oscar nel 2018 per La forma dell’acqua, ha fortemente voluto quest’horror, tratto dalla serie omonima di racconti per bambini di Alvin Schwartz — un’antologia che va dal mitologico al soprannaturale. Ambientato durante la guerra del Vietnam, mette insieme diverse vicende seguendo le avventure di un gruppo di adolescenti che nella piccola città di Mill Valley scoprono un libro misterioso che contiene storie terrificanti che, via via, si trasformano in realtà coinvolgendo i protagonisti. Intanto Del Toro è al lavoro sul nuovo, atteso progetto: un film su Pinocchio.
Perché un film dai libri di Alvin Schwartz?
«Sono molto popolari in America. Io li ho scoperti in una libreria di San Antonio in Texas, ho notato quei disegni inquietanti e il titolo, irresistibile: Storie spaventose da raccontare al buio. Li ho letti tutto d’un fiato. Fantastici. Come le illustrazioni, realizzate dall’artista Stephen Gammell. Spettrali e spaventose. Ho pensato per anni di sceneggiarli, lo avevo fatto, poi ho ricominciato da zero. Abbiamo pensato anche al periodo migliore in cui ambientarle. Abbiamo scelto il ’68-’69 per il clima che si respirava nel paese, la guerra, le storie, le bugie. Ci sono grandi similitudini fra quel periodo e ciò che gli Stati Uniti stanno vivendo oggi».
È divertente far paura al pubblico?
«Come regista non mi interessa così tanto mettere paura, uso i miei film più come se fossero delle favole. Ma da produttore, mi piace l’idea di creare empatia con i personaggi, cercare la complicità del pubblico, che è li e non aspetta altro che accada qualcosa di orribile. Raggiunta la complicità, tutto funziona a meraviglia».
Che ruolo hanno i sogni nella sua creatività?
«A dire il vero non sogno mai niente di interessante, soprattutto quando mi metto quell’orrenda macchinetta che mi serve per combattere l’apnea del sonno e grazie alla quale trascorro notti molto serene. Ma quando sogno ho due incubi ricorrenti: vengo divorato dagli squali o sbranato da orde di zombi. In questo caso, mi rifugio su un tetto e cerco di saltare giù, proprio io che, con il mio peso, faccio fatica anche a fare un saltello minuscolo. Quanto agli squali, deve pensare che nella rtealtà io nuoto molto bene e spesso mi immergo con le bombole, quindi mi atterrisce l’idea di stare sott’acqua e incontrare un pescecane pronto ad azzannarmi. L’acqua è il mio secondo habitat naturale».
Il primo?
«Il set, dietro alla macchina da presa o davanti a un monitor. Ma per tornare ai sogni, io sogno soprattutto a occhi aperti, Lo facevo anche con i miei bambini quando erano piccoli: spesso, quando eravamo in macchina, guardavamo le persone che passavano e inventavamo le loro vite: da dove venivano, dove stavano andando, come si chiamavano... Ci costruivamo sopra dei lunghi dialoghi immaginari».
Il teatro delle vicende narrate dal film è un paesino. Le storie horror sono spesso ambientate in piccoli centri...
«Il motivo è semplice: in Messico c’è un detto, “piccola città, grande inferno”. È verissimo. Anche i pettegolezzi siventano esplosivi in una piccola città».
Che cosa ne pensa del dibattito sulla “guerra” tra il grande schermo e lo streaming, accusato di uccidere il cinema?
«Ho 54 anni e la morte del cinema l’ho vista almeno tre volte. Prima con il Cinemascope: il cinema è morto! Chiacchiere. Poi arriva Easy Rider e il cinema di contestazione prende il sopravvento. Poi il VHS: e di nuovo si grida alla morte del cinema. Il VHS è sparito ma il cinema è ancora qui, giusto? Ora sta accadendo di nuovo. È un po’ come per l’horror: non morirà mai, perché riflette il nostro stato di ansia e inadeguatezza».
C’è grande attesa per il suo “Pinocchio”, del quale sappiamo pochissimo.
«Senza rovinare la sorpresa posso dirvi che sarà autobiografico. Pinocchio per me è come Frankestein: figli di un padre presuntuoso, soli in un mondo che non conoscono, con la pretesa che si comportino bene e se la cavino da soli, vittime di errori e di lezioni durissime. So che Matteo Garrone sta facendo un Pinocchio molto fedele al libro, per quel che ho visto le immagini sono bellissime. Ma se pure ci fossero altri quattro Pinocchio quest’anno, nessuno sarà come il mio. E avrà la musica di Alexandre Desplat».
Che rapporto ha con il burattino di legno?
«La prima volta che lessi Pinocchio da giovane, in Messico, rimasi scioccato per la violenza e la sopraffazione presenti nella storia. Poi quell’incubo, “comportati bene o sarai dannato”. Mamma mia che paura! La verità è che Pinocchio è l’archetipo di tutti i bambini che, a un certo punto, non capiscono più il mondo che hanno intorno. Un libro dal quale i genitori hanno molto da imparare».