Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2019
Quella in corso in Libano è davvero una rivoluzione?
Li Haqqi, “Per i miei diritti”, si chiama il movimento che più di tutti gli altri ha portato i libanesi nelle strade di molte città. Che la società civile abbia bisogno di più opportunità e diritti, e la classe politica di una scossa elettrica, è evidente quanto il Monte Libano che sovrasta maestosamente la baia di Beirut. Ma quella in corso è davvero una rivoluzione? Chi e quanti sono i responsabili della crisi economica seguita a una crisi politica interna, circondata da una gigantesca destabilizzazione regionale?
Secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, per ineguaglianza dei redditi il Libano è al 129° posto su 141 paesi. L’1% più ricco possiede il 25% dell’intero redito nazionale. Nel 2017 il 20% di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1% del totale dei depositi nelle banche libanesi.
Almeno un milione, dei sei milioni di libanesi, è povero. L’arrivo in questi anni di un milione e mezzo di rifugiati siriani ha spinto nella povertà altri 200mila libanesi: offrendosi per salari inferiori, i profughi hanno sottratto lavoro non specializzato alla fascia sociale libanese più debole.
La Banca Mondiale ha stanziato 100 milioni di dollari per il problema ma sono quattro soldi di fronte al pericolo destabilizzante del conflitto siriano ai confini e all’ondata dei profughi: secondo gli esperti, quando questi ultimi superano il 25% della popolazione ospitante, gli equilibri interni di un paese sono a rischio.
Eppure il piccolo Libano ha 142 istituti bancari, contati dalla Commissione governativa per il controllo sul credito. Il profitto totale delle prime 14 banche equivale al 4,5% del Pil nazionale. Come unità di misura, le più importanti banche in Gran Bretagna arrivano all’1, in Germania allo 0,2 per cento. Fra alti e bassi dovuti alla geopolitica regionale, non alla disponibilità di contante, l’industria immobiliare locale ha sempre trovato nelle banche libanesi creditori generosi ma contemporaneamente attenti a non creare bolle speculative come nel Golfo.
In questa realtà fra estrema povertà e grande ricchezza, opera lo Stato, cioè il governo: con regole teoricamente assillanti ma facilmente ignorabili, col nepotismo, il settarismo tribale, naturalmente col fenomeno universale della corruzione, in un certo senso con un laissez faire non tanto ideologico quanto artigianale. Più sinteticamente, lo Stato e il suo braccio operativo, il governo, vivono di debito. Il deficit di bilancio è all’8% del Pil, il debito pubblico al 152,8% e i libanesi importano, cioè consumano, molto più di quanto esportino. Per la sua storia e per quello che il Libano rappresenta, l’Europa non vuole vedere il paese affondare di nuovo, come nei 15 anni di guerra civile, fra il 1975 e il 1990. Da tempo la Conferenza di Parigi finanzia il paese. L’ultima trance da 11 miliardi di dollari è pronta ma perché arrivi a Beirut occorre che il governo faccia le riforme economiche richieste.
E qui arriviamo alla cronaca di questi giorni. Alle manifestazioni e alla “Rivoluzione”. Fino ad ora il racconto del profilo economico libanese poteva essere simile a decine di altri paesi di vari continenti. Ora si entra nella specificità locale. Non c’è nel Medio Oriente arabo un luogo dove le libertà individuali siano così rispettate; dove il diritto di critica della stampa sia così scontato.
Le libertà collettive sono invece protette da una specie di “democrazia settaria”: secondo demografia, ognuna delle 17 comunità religiose ha una rappresentatività nelle cariche, le istituzioni, nella ricchezza pubblica; e all’interno di ogni comunità (geograficamente più omogenee dopo la guerra civile) la setta provvede a distribuire la sua ricchezza. Il sistema sociale che a livello nazionale manca, è garantito a livello settario, sovvenzioni comprese. Da decenni Hezbollah costruisce per la sua gente scuole, ospedali, case popolari che lo Stato non avrebbe i mezzi per finanziare.
Molti dei manifestanti in questi giorni in piazza, hanno ragione a rivendicare uno Stato più moderno e meno settario. Ma contemporaneamente godono dei benefici garantiti dalla loro setta. E allo Stato che vogliono cambiare, non pagano le tasse. Il governo libanese non ha la capacità né la volontà di raccogliere le imposte sul reddito: il 60% delle entrate fiscali viene da tasse indirette. La società civile ha ragione a protestare contro gli aumenti sull’uso del cellulare, che hanno scatenato la rivolta: quello libanese è forse il peggiore e già più caro dei servizi al mondo; ne ha un po’ meno perché sono le uniche tasse che paga.
Ciò che la comunità internazionale attende per sborsare gli 11 miliardi di dollari promessi, sono riforme che molti manifestanti osteggiano. Come le telecomunicazioni, la riforma dell’IT, dell’energia elettrica, le privatizzazioni in molti altri settori. Due vecchi signori della guerra civile come il druso Walid Jumblatt e il maronita Samir Geagea, si sono subito messi dalla parte della protesta, contro il governo. Sono fra i leader politici che più fanno ostruzione alle riforme.
Jumblatt controlla il lucroso mercato dei generatori elettrici, senza i quali da Tripoli a Sidone i libanesi resterebbero senza elettricità per ore, ogni giorno. È l’ultimo a volere una riforma del sistema energetico. Così come l’inesistente raccolta dei rifiuti che l’anno scorso aveva chiamato in piazza un altro movimento cresciuto dal basso, “Tu puzzi”. Anche su quello le sette fanno affari.
Ma con tutte le loro ambiguità e la retorica, le sette sono anche l’assicurazione sul presente e forse sul futuro del Libano. La principale richiesta dei manifestanti è un “governo di tecnici”. Se fosse mai accolta, incomincerebbero a litigare se il premier o il ministro delle Finanze oppure dell’Educazione debba essere cristiano maronita, greco ortodosso, sciita, sunnita o druso. E qualcuno ricomincerebbe a sparare.