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 2019  ottobre 22 Martedì calendario

Il cardinale Mario Zenari si considera «nunzio da campo» in Siria: «Solo l’Onu porterà la pace»

Era il 9 ottobre quando Mario Zenari, appena undicenne, entrò nel seminario di Roverè, in Lessinia, perché quello di San Massimo sarebbe stato inaugurato soltanto nel 1960, «io in prima media e Giuseppe Zenti, l’attuale vescovo di Verona, in quinta elementare», per poi essere ordinati preti il primo nel 1970 e il secondo nel 1971. Era il 9 ottobre quando papa Francesco, nel 2016, annunciò a sorpresa che gli avrebbe conferito la porpora nel concistoro del 19 novembre. «Monsignor Mario Zenari, che rimane nunzio apostolico nell’amata e martoriata Siria», scandì il Pontefice all’Angelus, citandolo per primo fra i 13 nuovi cardinali.Era il 9 ottobre scorso quando il cardinale, molto schivo, ha accettato dopo parecchie titubanze d’incontrarmi per raccontare di sé e della sua missione, e la scelta della data appare simbolica pur nella sua casualità. «Quella domenica del 2016 mi trovavo in Italia per un periodo di riposo. Ero all’oscuro della decisione del Santo Padre. Seppi della mia nomina con mezz’ora di ritardo rispetto al resto del mondo, mentre mi trovavo a pranzo con i compaesani della classe 1946 in una trattoria di Custoza. Francesco, un agricoltore, mio ex compagno delle elementari, fu convocato al telefono fisso dal gestore. Tornato fra i commensali, fu lui a informare i presenti: “Ghémo un cardinal!”. Rimasi sbigottito. Checco, ma cossa dìsito, con ci eto parlà?, replicai. E lui: “Con to cugnà”. Cercai di chiamare mio cognato, ma nel locale il cellulare non prendeva. Uscii, m’inerpicai su per la collina in cerca di campo e all’improvviso fui investito da un’alluvione di ci-ciù ci-ciù: gli sms di congratulazioni. Poi la telefonata di un giornalista, che mi chiese un commento a caldo. Balbettai: il Papa ha dato la porpora ai bambini siriani, non a me».
In chiave bellica, tutto si tiene. L’Ossario di Custoza raccoglie le spoglie dei caduti italiani e austriaci nelle guerre d’indipendenza del 1848 e del 1866. La vicina Villafranca è la città del Quadrato, ma anche della Pace, che ha dato i natali a Zenari. Anche se il cardinale, per la verità, viene da una famiglia di mezzadri residente a Rosegaferro, frazione dal nome evocativo.
Da quando – 20 anni fa – entrò nel servizio diplomatico della Santa Sede, di ferri da rosicchiare ne ha avuti parecchi. È l’unico nunzio apostolico mandato in missione solo in Paesi devastati da guerre civili: prima in Costa d’Avorio, Niger e Burkina Faso, poi in Sri Lanka, ora in Siria. Ed è anche l’unico nunzio nella storia recente della Chiesa con il titolo di cardinale, quindi con diritto di voto in conclave.
Prima di essere nominato nunzio apostolico a Damasco nel 2008, è stato diplomatico in Senegal, Liberia, Colombia, nelle nunziature apostoliche in Germania, subito dopo la caduta del Muro di Berlino, e in Romania. E anche rappresentante permanente della Santa Sede presso l’Aiea, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, e l’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa, nonché osservatore permanente presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale.
Ordinato sacerdote dal vescovo Giuseppe Carraro il 5 luglio 1970, per tre anni fu vicario parrocchiale a Buttapietra e per altri tre a Cerea. Nel 1976 lo mandarono a Roma per la formazione diplomatica alla Pontificia accademia ecclesiastica. In quel periodo frequentò anche la Gregoriana, laureandosi in diritto canonico. La consacrazione episcopale risale a 20 anni fa.
«Più che l’abito corale scarlatto, dovrei indossare la tuta mimetica. Mi considero un veterano di guerra», dice il cardinale Zenari. Travolto da mille impegni, aggiunge con tono scherzoso: «Quando sono in Italia non vedo l’ora di tornare in Siria per tirare il fiato».
«In Italia» significa Città del Vaticano, Roma, Verona e Rosegaferro, dove ancora vive la sua famiglia. E soprattutto Custoza. «Vado a meditare sulle colline attorno all’Ossario. Guardo verso Solferino, dove nel giugno 1859 un giovane banchiere svizzero, Henry Dunant, assistette alla più aspra battaglia della Seconda guerra d’indipendenza, udì le urla dei feriti e decise di fondare la Croce rossa. Ogni tanto incontro una piccola lapide che commemora un soldato caduto lì».
Le guerre sono un suo pensiero fisso.
A Custoza oggi è tutto tranquillo, il verde dei vigneti copre ogni cosa. Allora mi dico: un domani anche il deserto della Siria fiorirà. Ma non si cancellerà il ricordo del sangue che lo ha fatto germogliare.
La prima volta che arrivò a Damasco, che cosa provò?
Mentre atterravo, m’impressionarono gli aerei militari fermi al suolo e la distesa di pietre. Per due terzi la nazione è desertica, a parte gli agrumi sulla costa mediterranea. Solo nell’Alta Mesopotamia, fra il Tigri e l’Eufrate, si estende un tappeto d’oro di 500 chilometri, che a marzo diventa verde: è il granaio della Siria. Sono figlio di agricoltori e vedere il frumento mi colpisce sempre.
Indossare una mimetica le sarebbe davvero utile laggiù.
Il Papa parla spesso di «Chiesa ospedale da campo». Ecco, mi considero un nunzio da campo. Ai vari colori per meglio camuffarsi, alla mia tuta andrebbe aggiunto il rosso porpora, simbolo del sangue. Ma vorrei che nessuno la portasse.
Non teme per la sua vita?
Non ho patemi d’animo. Il Signore mi ha sempre aiutato. Il 5 novembre 2013 un razzo cadde alle 6.34 del mattino sul terrazzo della nunziatura dove di solito a quell’ora vado a pregare. Uno scarto di 5 metri, e non sarei qui a raccontarlo. Sono arcivescovo titolare di Zuglio. Nel giugno scorso ho visitato questo paesino ai confini tra Carnia e Austria. Uscendo dalla cattedrale, sono ruzzolato giù dalla scalinata, fratturandomi il polso destro e un dito della mano sinistra. Mi hanno ingessato entrambi gli arti. È stata un’esperienza istruttiva. Ho ripensato ai bimbi colpiti da un missile piovuto sulla loro scuola a Damasco il venerdì santo del 2014. E ho rivisto Laurin, 9 anni, in ospedale: le avevano amputato le gambe. Quegli innocenti mi sorridevano, capisce? M’è tornato in mente il «martirio della pazienza», di cui scrisse il compianto cardinale Agostino Casaroli. Non basta parlare: bisogna provare.
Come nacque la sua vocazione?
Fu una scelta naturale, maturata in una famiglia saldamente ancorata ai valori cristiani: l’amore fra i coniugi, i figli, il sudore nei campi, l’onestà. Il primo esempio fu quello di don Giuseppe Girelli, originario di Dossobuono, che veniva a visitare la mia nonna malata. In seguito fondò a Ronco all’Adige la Casa San Giuseppe per ex detenuti. Dedicò la vita ai carcerati. Oggi è venerabile, avviato a diventare santo.
Aveva preventivato che, da diplomatico vaticano, sarebbe finito solo in Paesi belligeranti?
Quando fai il nunzio, prima o poi in un conflitto ci caschi dentro. Le guerre sono tutte sporche, tutte atroci. Quella in Costa d’Avorio restava lì. Quella in Sri Lanka non usciva dall’isola: aveva attorno l’Oceano Indiano. Di quella in Siria ho capito subito che il fuoco si sarebbe esteso. E così è stato. Oggi sta incendiando anche l’Europa. Pensi all’Isis.
Che altro accadrà ora che la Turchia bombarda i curdi nel nord del Paese e Recep Tayyip Erdogan minaccia di farci invadere da milioni di profughi qualora osassimo ostacolarlo?
Nessuno può prevederlo. L’unica certezza su questa guerra, in corso ormai dal 2011, l’ha espressa il secondo inviato speciale dell’Onu, l’algerino Lakhdar Brahimi, quando dopo due anni gettò la spugna: «Ci siamo tutti sbagliati. Sia in Siria sia fuori dalla Siria».
Le vere cause del conflitto quali sono?
Guardi, all’inizio si poteva pensare: qui ci sono i buoni, là ci sono i cattivi. Ma oggi la matassa è talmente ingarbugliata da impedire qualsiasi giudizio. Sul terreno e nei cieli siriani si confrontano cinque potenze mondiali che si fanno la guerra per procura. Questo conflitto può risolversi solo a New York. Sulla Siria ho visto diatribe verbali così accanite, al Palazzo di Vetro, da far sembrare che i contendenti fossero sul punto di passare alle vie di fatto. Per 13 volte cinque membri del consiglio di sicurezza dell’Onu hanno utilizzato il diritto di veto pur di evitare la pace.
La nunziatura di Damasco dove si trova?
A 700 metri dagli uffici del presidente Bashar Assad, nel quartiere delle ambasciate, molte delle quali chiuse.
Ha avuto molti incontri con Assad? Che tipo è?
Solo tre, l’ultimo lo scorso 22 luglio. Dà l’impressione di essere un gentleman. Ha studiato a Londra, parla un inglese e un francese perfetti. Non si può dire che assomigli a Saddam Hussein o a Gheddafi. Ciò non toglie che la responsabilità di quanto sta accadendo in Siria la porta lui, non la sua domestica.
Avete provato a discutere di una possibile via d’uscita?
Sono argomenti riservati. Nel colloquio più recente, durato 80 minuti, gli ho sentito dire le cose che nel mio piccolo avevo già osservato in dieci anni di permanenza in Siria. Poi l’essere d’accordo o in disaccordo con lui è un’altra questione. Assad pensa che la pace sia vicina. Anch’io vorrei che la guerra finisse domani. Però temo che non si concluderà neppure nel 2020.
Il presidente sostiene che si difende dai terroristi musulmani.
Un’antifona che ripete da anni, e in parte è vera: l’avvento dello Stato Islamico rappresenta un autentico flagello.
Ha mai avuto contatti con esponenti dell’Isis?
Non sarebbe corretto, senza contare che per uscire da Damasco mi serve l’autorizzazione del ministero degli Affari esteri siriano. Però ho incontrato le madri di molti foreign fighter, i combattenti occidentali che si sono arruolati nell’Isis.
Qual è il suo stato d’animo quando rientra a Damasco?
Quello di chi torna in un ospedale da campo. È la più grande catastrofe umanitaria dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non lo dice Zenari, bensì António Guterres, segretario generale dell’Onu, che ha parlato di «inferno sulla terra», e la magistrata Carla Del Ponte, che, dimettendosi dalla Commissione indipendente delle Nazioni Unite sulla Siria, ha affermato: «Credetemi, crimini così orribili non ne ho visti né in Ruanda, né nell’ex Jugoslavia».
Sa dirmi i numeri della tragedia?
Su 23 milioni di abitanti, 12 sono fuggiti dalle loro case. Di questi, 5,9 milioni risultano sfollati interni e 5,6 riparati nei Paesi vicini. Mezzo milione hanno perso la vita sotto le bombe. È un mare di dolore: 11,7 milioni di persone chiedono cure, cibo, protezione. Per non parlare della violenza contro le donne, «perpetrata su scala industriale», ha testimoniato Mark Lowcock, sottosegretario generale dell’Onu per gli affari umanitari. Ci sono mamme che vanno a comprare il pane da dare ai loro 10 o 15 figli e per averlo devono sottostare alle voglie dei fornai. Lei conosce la parabola del buon samaritano?
Il viandante soccorre un uomo lasciato mezzo morto dai briganti sulla strada da Gerusalemme a Gerico, lo cura e lo affida a un locandiere, accollandosi le spese.
La Siria è quel malcapitato. I ladroni che l’hanno bastonata non li nomino: li conosciamo. I buoni samaritani sono chiese, Ong e privati che per fede o per umanità la soccorrono. Circa 2.000 di loro sono stati uccisi. La locanda non c’è più: il 54 per cento degli ospedali sono sbarrati o parzialmente inagibili, secondo l’Oms, e mancano all’appello i due terzi del personale sanitario.
Il nunzio apostolico che può fare in tanta desolazione?
In Siria ci sono da quasi 120 anni tre nosocomi cattolici retti da suore: due a Damasco e uno ad Aleppo. Il Papa mi ha detto: «Riempiamoli non al 100 per cento, ma al 120». Allora con la Fondazione Avsi di Milano abbiamo lanciato l’operazione Ospedali aperti, che ha già curato gratis 25.000 pazienti. Puntiamo ad arrivare a 50.000. Ma in tre anni servono 15 milioni di euro: chi ce li dà? Ai ricoverati non chiediamo quale fede pratichino, basta solo che siano bisognosi, visto che 83 abitanti su 100 vivono sotto la soglia di povertà. In Siria vi sono più Mohammed che Pietro, i cristiani costituiscono appena il 2-3 per cento della popolazione. Per cui i musulmani, che ci vedevano come immorali, ora sono i primi a parlare bene della Chiesa.
I fedeli di rito siriaco, caldeo, maronita, melchita e armeno sono quasi scomparsi.
Quello delle Chiese cattoliche orientali è un altro disastro immane. Va disperso un patrimonio liturgico e spirituale millenario. L’allora vicario di Damasco mi diceva che nell’ultimo mezzo secolo i cattolici erano calati dal 30-35 per cento al 5-10 senza emigrare. Il motivo me l’ha spiegato una suora: «Oggi è venuto un papà islamico e ha insistito per iscrivere il suo ultimo figlio alla scuola cattolica. Ne ha altri 25». Poligamia. Le musulmane si sposano a 15 anni, le cristiane a 25 e di bimbi ne mettono al mondo tre. È una calamità per l’intero consesso umano. Se nel mondo 1,8 miliardi d’individui si chiamano cristiani, e non gesuani o nazaretani, è perché quel nome fu dato ai discepoli del Maestro per la prima volta ad Antiochia di Siria.
È scritto negli Atti degli apostoli, capitolo 11.
Questa terra ha donato alla Chiesa sei papi, così come sei imperatori, quando era provincia di Roma, fra i quali Filippo l’Arabo, nato a 90 chilometri da Damasco, che pare fosse cristiano e che governò per cinque anni prima di rimanere ucciso nel 249 a Verona, nella battaglia contro Decio. Come possiamo dimenticare san Paolo, che si convertì sulla via di Damasco, trasformandosi da persecutore dei discepoli di Gesù in evangelizzatore delle genti? O il martire sant’Ignazio di Antiochia, tradotto a Roma e fatto sbranare dalle belve? Persino in età moderna i cristiani hanno contato molto nella storia della Siria. Faris Khoury, il primo ministro dell’indipendenza dalla Francia, era un protestante. Michel Aflaq, fondatore del partito Ba’th, era un greco-ortodosso.
Pensa che sia fattibile un viaggio apostolico del Papa in Siria?
Lui lo desidera molto, ma è ostacolato da motivi di sicurezza. Se viene, non si chiude certo in nunziatura o in albergo. Vuole incontrare la gente, celebrare la messa negli stadi. Chi può garantirci da un attentato? È un grave rischio non tanto per il Pontefice, quanto per i fedeli. Francesco, nell’ultima via crucis al Colosseo, ha detto che la Siria è tutta un calvario, sul quale però s’incontrano ancora le Veroniche e i Cirenei.
Uno è il gesuita Paolo Dall’Oglio, rapito a Raqqa nel 2013. Che cosa si sa di lui?
Nulla. Quando vado a Roma, visito sempre la madre novantenne, le quattro sorelle e i tre fratelli. E non so mai che cosa dire. «Metti i sacchi di sabbia alle finestre», mi raccomandò padre Paolo l’ultima volta che ci parlammo, nell’aprile 2013. Si preoccupava della mia incolumità ed è finito nella fossa dei leoni.