Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2019
Wall Street volta le spalle allo shale oil
Fiumi di denaro si sono riversati per oltre dieci anni sul settore dello shale oil, alimentando l’ascesa degli Stati Uniti al vertice della classifica mondiale dei produttori di petrolio. Ma oggi Wall Street ha voltato le spalle ai frackers. La Borsa continua a massacrare i titoli del settore, le banche stanno restringendo il credito e il mercato dei capitali si è prosciugato come non era mai successo in precedenza, nemmeno nei periodi di crisi più bui. La scarsità di fondi è tale da spingere verso strade inedite e pericolose, come la cartolarizzazione dei flussi di idrocarburi attesi da un singolo pozzo.
Non dobbiamo aspettarci che dallo shale oil scaturisca una crisi come quella provocata dai mutui subprime. Ma il ricorso a espedienti finanziari come la cartolarizzazione della produzione (rischiosissimi per gli investitori, visto che prevedere come si comporterà ciascun pozzo è compito quasi da negromanti) è un altro campanello di allarme delle difficoltò del settore, specie se la pratica si diffonderà. Un primo esperimento, con un bond che promette di rendere il 6%, l’ha fatto Raisa Energy in collaborazione con EnCap Investments ma secondo il Wall Street Journal molte altre società stanno scaldando i motori per seguirne l’esempio.
I segnali di fatica della comunità finanziaria nei confronti dello shale oil del resto sono evidenti e giorno dopo giorno si stanno moltiplicando. Persino i fondi di private equity – che hanno finanziato a lungo il settore, finendo con l’assumere il controllo di molte società fallite – si stanno tirando indietro: già da qualche tempo hanno spostato l’attenzione dall’upstream verso il più redditizio midstream (oleodotti e altre infrastrutture) e ora anche questo segmento registra una defezione eccellente. Carlyle ha appena abbandonato, senza fornire giustificazioni, un progetto da un miliardo di dollari per costruire un nuovo terminal per le petroliere a Corpus Christi in Texas. Berry Group, rimasta unica azionista della Lone Star Ports, si è rivolta al tribunale in cerca di un indennizzo e potrebbe rinunciare all’opera.
Anche le banche nel frattempo stanno diventando più caute con lo shale. Per la prima volta da tre anni le società del settore si vedranno restringere le linee di credito, secondo il sondaggio periodico dello studio legale Haynes & Boone: oltre la metà dei 221 operatori intervistati prevede un taglio dei fondi del 10-20% alla prossima revisione autunnale.
Ma il problema più serio riguarda il mercato dei capitali. L’emissione di azioni e obbligazioni – da cui i frackers nello scorso decennio avevano ricavato 462 miliardi di dollari, con una punta di ben 63 miliardi nel 2012 (dati Dealogic) – oggi è diventata una fonte di finanziamento «minuscola» osserva Haynes & Boone. I partecipanti al sondaggio prevedono di procurarsi in questo modo solo il 5% dei fondi necessari, contro il 20% che stimavano un anno fa. È scesa (dal 25% all’11%) anche la quota di denaro attesa dai fondi di private equity.
La carestia di fondi è cominciata nell’autunno 2018, quando il petrolio ha preso a scendere a rotta di collo dopo aver superato 80 dollari al barile. L’anno si è chiuso con un bilancio davvero magro per le società americane dell’Oil &Gas, che sono riuscite a collocare azioni e obbligazioni per appena 22,8 miliardi di dollari, il 35% rispetto all’anno prima e il risultato più scarso dal 2007. Un disastro. Ma quest’anno va addirittura peggio: le emissioni nel primo semestre ammontano ad appena 716mila dollari nel caso delle azioni e 6,56 miliardi nel caso delle obbligazioni calcola Enverus. In tutto fanno circa 7,3 miliardi, una cifra irrisoria rispetto al passato.
Nel peggior periodo di crisi dell’industria petrolifera – tra il 2014 e il 2016, mentre il prezzo del barile crollava da oltre 100 dollari a meno di 30 –le emissioni avevano superato 160 miliardi di dollari, con una leggera prevalenza per i bond (89 miliardi). I rating, spesso vicini al livello spazzatura, garantiscono rendimenti allettanti. Ma anche se tuttora viviamo in un mondo di tassi sottozero questo non basta più ad attirare gli investitori, che sembrano aver perso ogni interesse per l’Oil & Gas.
Basta guardare la borsa. Il settore è il fanalino di coda quest’anno, con performance deludenti persino per i colossi. I veri paria del mercato sono però le società indipendenti dello shale: l’indice S&P Oil & Gas Exploration & Production ha dimezzato il suo valore negli ultimi 12 mesi, con ribassi a doppia cifra percentuale anche per molti nomi noti, compresa Eog Resources, soprannominata la «Apple del petrolio» e spesso additata come raro esempio di virtù sia tecnologiche che finanziarie.
Oggi per molti frackers l’unica possibilità è provare a reggersi sulle proprie gambe: nel sondaggio Haynes & Boone il cash flow operativo è identificato come la prima potenziale fonte di finanziamento (28%). Ma questo impone un drastico taglio dei costi n un settore che negli ultimi cinque anni ha bruciato oltre 100miliardi di dollari di cassa: bisogna fermare trivelle, licenziare personale, cedere asset. E dunque estrarre di meno.
È proprio quanto sta accadendo e la produzione Usa ha già rallentato il passo. Nei primi sette mesi di quest’anno è cresciuta di appena 140mila barili al giorno secondo l’Aie, a fronte di un incremento di 740mila bg nello stesso periodo del 2018. Da maggio l’output ha addirittura iniziato a diminuire, portandosi sotto la soglia psicologica dei 12 milioni di barili al giorno a luglio (anche a causa dell’uragano Berry). Difficile intravvedere un’inversione di rotta. A meno che il prezzo del petrolio, ora inchiodato sotto 60 dollari al barile, non riprenda a correre.