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 2019  ottobre 22 Martedì calendario

Nella Chernobyl fantasma dei turisti

Chernobyl a 33 anni dall’esplosione del reattore quattro avvenuta per negligenza, stupidità e incompetenza è ormai un non luogo. Se non fosse per le radiazioni, non sembra più nemmeno il posto dove si è compiuta un’immane tragedia. Quello che resta è un dipinto non finito, qualcosa dove il futuro è rimasto incompiuto.
Al primo check-point, nell’area di interdizione, i militari controllano i documenti e i permessi e affidano a ogni turista in visita un dosimetro medico per registrare le dosi di radiazioni ionizzanti che si accumuleranno lungo il percorso. E i turisti non sono mai mancati, ancora di più dopo che l’emittente statunitense Hbo ha trasformato il disastro in una serie televisiva. 
Avviene tutto in un clima talmente calmo e rilassato che si fa fatica a pensare che nella foresta che circonda la centrale, le radiazioni siano ancora in grado di uccidere una persona in pochi giorni e anche la paura è un sentimento che non si riesce a provare. Le guide però sono imperative su pochi ma fondamentali punti: mai sedersi a terra, mai toccare o raccogliere oggetti e non fumare perché più si aspira profondamente, più particelle radioattive si inalano fino ai polmoni.
La prima sosta del pulmino è accanto un vialetto sterrato. Ci si può inoltrare e anche entrare in quel che resta delle abitazioni e come un mantra le guide ripetono «non sedetevi, non toccate, non fumate». Chi si è portato un contatore geiger o lo ha affittato lo avvicina agli oggetti e al terreno. Il «bip bip» del misuratore di radiazioni gamma, quello sì ha qualcosa di inquietante, scandisce i passi. Nella prima casa segna due microsievert per ora, sul terreno circostante arriva anche a superare i tre, ma siamo ai livelli di una mammografia e per assorbirli tutti dovremmo restarci un’ora. 
Si riparte e si continua ad attraversare la foresta su uno stradone dall’asfalto fatiscente e questa volta la destinazione è Prypyat, quella che nelle intenzioni del regime sovietico doveva essere una città modello per le famiglie e gli operai che lavoravano alla centrale nucleare di Chernobyl distante meno di tre chilometri in linea d’aria. Anche qui si fa fatica a immaginare come vivevano i 49.000 abitanti fino al 26 aprile del 1986, giorno della tragedia che ha segnato per sempre le loro esistenze. Più di trent’anni fa aveva due ospedali, un cinema, un teatro, due hotel e numerosi bar e ristoranti. Anche il centro sportivo era all’avanguardia per l’epoca. Ma quando l’esplosione scoperchiò il reattore quattro le autorità un po’ cercarono di coprire l’accaduto e un po’ non capirono esattamente cosa stava accadendo. Il risultato fu che i pompieri della città furono mandati a spegnere l’incendio esponendosi così a radiazioni tali che morirono tutti in meno di due settimane tra atroci sofferenze. E con loro decine di residenti che andarono ad «ammirare» la colonna di aria ionizzata che nella notte illuminava come un raggio laser il cielo sopra il reattore. Il ponte da dove si otteneva la «vista migliore» non a caso è stato ribattezzato «ponte della morte». 
Sapore metallico in gola
Il resto della popolazione fu esposto alle radiazioni per altre 36 ore prima che una colonna di 1.300 pullman evacuasse la cittadina. Sul campo restarono solo i cani e gli altri animali domestici. Ora la natura si è ripresa praticamente tutto, molti edifici si vedono quando si è solo a pochi metri perché i rampicanti li avvolgono completamente e il resto è così brullo e grigio-marrone da mimetizzarsi con le piante. Nel parco giochi le autoscontro sono ferme e arrugginite sulla pista e qui sì che si riescono a immaginare i bambini giocare il 27 aprile mentre il vento portava la morte in città. C’è anche la ruota panoramica che sarebbe stata inaugurata il primo maggio per la Festa dei lavoratori. Sarà suggestione, ma nella gola si inizia a sentire un sapore metallico simile alla ruggine. Poi una guida sposta un po’ di muschio e il dosimetro geiger schizza a più di 63 microsievert: non è suggestione ma il sapore della morte che regna a Prypyat. Ci allontaniamo rapidamente. Si torna sul van e dopo 10 minuti si intravede l’enorme sarcofago costruito nel 2016 che copre il reattore. Non siamo neanche a 100 metri di distanza e i dosimetri quasi tacciono, siamo a 0,8 microsievert, meno di una normale radiografia. Del resto qui lavorano centinaia di operai per la gestione e la manutenzione degli altri tre reattori ormai spenti. Si pranza alla mensa della centrale. Tutto è normale, se non fosse per una specie di «body scanner» che bisogna attraversare prima di poter fare la fila con i lavoratori. Si ritorna a Kiev, ma prima di uscire dall’area di interdizione il pulmino si ferma e l’autista ci indica di guardare a sinistra: c’è una famiglia di quattro orsi in lontananza nella foresta. Fanno parte di un esperimento, le autorità ne avevano portati 6 per vedere in quanto tempo sarebbero morti vivendo nella foresta. Il risultato è che il numero è raddoppiato e non hanno subito mutazioni genetiche anche se mediamente vivono meno degli altri orsi. 
Nelle due ore di viaggio che ci aspettano la mente corre alle sciagure che questo Paese ha dovuto subire. E ci si stupisce del grande entusiasmo che conserva, pensando che il lascito dell’Unione Sovietica all’Ucraina sono i 6 milioni di morti per fame scientemente causati da Stalin e la terra contaminata e i tanti morti di Chernobyl e Pripyat. E ora, mentre a Est si deve difendere dall’occupazione del Donbass sponsorizzata da Mosca, l’anima dell’Ucraina cammina guardando a Ovest perché non vuole più che il suo futuro sia incompiuto.