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 2019  ottobre 22 Martedì calendario

John Banville intervista John le Carré

Ho sempre ammirato John le Carré. Un’ammirazione non sempre sprovvista di invidia — così tanti bestseller! — ma piena di meraviglia per il fatto che l’opera di un artista di simili capacità letterarie sia riuscita ad avere un successo così grande presso il grosso pubblico. Il fatto che le Carré, alias David Cornwell, abbia scelto di ambientare i suoi romanzi quasi esclusivamente nel mondo dello spionaggio ha consentito a certi critici di liquidarlo come non appartenente alla categoria degli scrittori seri, un mero intrattenitore.
Ma con almeno due dei suoi libri, La spia che venne dal freddo (1963) e La spia perfetta (1986), ha scritto dei capolavori destinati a durare nel tempo. Quale altro scrittore sarebbe riuscito a produrre romanzi di qualità tanto costante nell’arco di una carriera che abbraccia quasi sessant’anni, da Chiamata per il morto del 1961 alla sua ultima fatica, La spia corre sul campo , che pubblica a 88 anni? E anche se ha lasciato intendere che questo sarà il suo ultimo libro, sono pronto a scommettere che non ha ancora finito: è intellettualmente energico e politicamente consapevole come non mai, in tutta la sua lunga vita.
La trama del nuovo libro ruota intorno a una collusione segreta fra gli Stati Uniti di Trump e i servizi di sicurezza britannici allo scopo di minare alla base le istituzioni democratiche dell’Unione Europea.
«È orrendamente plausibile», dice con un certo piacere quando ci incontriamo nella sua casa di Hampstead. Il piacere è legato alla trovata narrativa, non alla sua orrenda plausibilità, e subito spunta fuori il padre truffatore, con le sue grandi sopracciglia e il suo sorrisetto fin troppo plausibile. Ronald «Ronnie» Cornwell era un genio della truffa, capace di suscitare ancora oggi sgomento in suo figlio. «Nella vita ho avuto la fortuna», dice, «di nascere con un soggetto narrativo già pronto, la straordinaria, insaziabile criminalità di mio padre e delle persone che aveva intorno».
Le Carré parla dei suoi nipoti, «tutti sconvolti dalla Brexit e dall’idea di essere privati della libertà di movimento, e così via. Io dico: "Guardate, la verità è che voi avete vissuto in molte città straniere e sapere che a conti fatti non troverete mai una conversazione migliore, una raffinatezza maggiore, una facilità di contatto sociale come quelle che potete trovare a Londra o in Gran Bretagna"». Gli dico che ho vissuto a Londra per un anno, alla fine degli anni ’60, e venendo da un’Irlanda che a quei tempi era ancora saldamente sotto la morsa della Chiesa cattolica non finivo di stupirmi della libertà di movimento che mi era concessa, specialmente su e giù per i vari scalini delle infinite gradazioni del sistema di classi sociali inglese.
Ma sicuramente tutto questo ora è a rischio, con il Paese così diviso sull’Europa, no?
«Sì, è così. Tribuni della plebe come quelli che abbiamo, vedi Boris Johnson, non parlano con la voce della ragione. Quando entri a far parte della categoria il tuo compito è infiammare la gente con la nostalgia, con la rabbia. È quasi incredibile che queste persone dell’establishment — Farage, per esempio — parlino di tradimento: "Io sono tradito dal Parlamento, tradito dal governo: sono un uomo del popolo"».
Ma non ci sono soltanto motivi di ira e di pessimismo.
«Penso che tutto sia controllabile, se viene ripristinato il contratto sociale. Non si può sostenere l’esistenza di regole del gioco uguali per tutti in questo Paese fintanto che esistono istituzioni esclusive come l’istruzione privata, la sanità privata, tutto privato. Io sono convinto che dobbiamo fare le cose che altri Paesi fanno senza problemi o quasi.
Dobbiamo avere un’imposta patrimoniale, dobbiamo limitare enormemente la quantità di ricchezza che si può ricevere in eredità».
Ma chi dovrebbe farlo?
«Beh, abbiamo una situazione abbastanza particolare con il Partito laburista, se riescono a salire al potere e a liberarsi di Corbyn (penso che a Corbyn in realtà non dispiacerebbe andarsene), ma hanno questo elemento leninista, questa smania di livellare la società. Ho sempre pensato (anche se, paradossalmente, non è così che ho sempre votato) che alla fin fine è un conservatorismo compassionevole quello che potrebbe riuscire, per esempio, a integrare il sistema scolastico privato. Se lo fai da sinistra, tutti penseranno che lo fai per risentimento; se lo fai da destra, sembrerà un modo intelligente di organizzare la società».
Arrivati a questo punto rischiamo di avere l’aria di due vecchi barbogi scontrosi che rievocano con nostalgia un’età dell’oro immaginaria.
«Si potrebbe dire che con la scomparsa della classe operaia abbiamo assistito anche alla scomparsa di un ordine sociale consolidato, fondato sulla stabilità delle vecchie strutture di classe. E poi la classe operaia aveva l’esperienza della guerra, ma le persone con esperienza della guerra, una ad una, sono sparite dalle politica».
L’atteggiamento verso la Brexit è espresso in modo pungente nel nuovo romanzo. Sicuramente qualcosa di più, e per fortuna di meno, di un’invettiva politica.
«Non volevo che fosse un romanzo sulla Brexit. Volevo che fosse leggibile e comico. Ma se si vuole avere l’impertinenza di proporre un messaggio, allora il messaggio del libro è che ormai nessuno sa quale sia il nostro concetto di patriottismo e nazionalismo, a chi debba andare la nostra lealtà, collettivamente e individualmente. Io penso che la Brexit sia totalmente irrazionale, che sia la dimostrazione di una scena politica britannica sconcertante e di una notevole incapacità diplomatica: le cose che non andavano bene dell’Europa potevano essere cambiate dall’interno dell’Europa.
Credo che i miei legami con l’Inghilterra si siano enormemente allentati negli ultimi anni. E in un certo senso è una liberazione, anche se una liberazione triste».
Essere una spia ti ha dato un senso di appartenenza?
«Cercare concretamente — in senso faustiano, Dio mi aiuti — quello che il mondo nasconde nel suo punto più recondito, è stato un modo per chiedermi: che cosa siamo? Chi eravamo? Che probabilmente è un’estensione della domanda: chi diavolo sono io? Dove si trova la virtù? Dov’è l’altare dell’inglesità? E penso che sia stato un viaggio interiore davvero duro, e molto interessante guardandolo con il senno di poi: un ragazzo perduto in cerca di qualcosa».
Ma quando eri un membro dei servizi segreti sentivi di essere in contatto con il mondo reale, distinto dal mondo di fantasia in cui la maggior parte di noi vive spensieratamente?
«Ero una figura di livello molto basso, sia nell’Mi5 che nell’Mi6. Quindi gran parte di quello che la gente pensa sia frutto di esperienza diretta, nei miei romanzi, in realtà è immaginato. Ma quando mi consentivano di partecipare alle riunioni operative sentivo quello che stavano tramando gli animali più grandi, così quando sono uscito da quel mondo — con grande sollievo — avevo un ricchissimo tesoro di operazioni immaginate, basate su sprazzi di realtà. Ma non ho mai fatto nulla di qualche rilevanza in quel mondo».
Evgenij Primakov — ex capo del Kgb — venne in Gran Bretagna per una visita ufficiale, al termine della quale la sua unica richiesta fu di incontrare le Carré.
«Così io e Jane (sua moglie, ndt) ci siamo ritrovati nell’ambasciata russa circondati da russi, con Primakov davanti a me. Era un uomo estremamente intelligente, dalla grande cultura umanistica, anche se all’età di 18 anni lavorava già con l’Nkvd, che poi sarebbe diventato il Kgb. Era affascinante e siamo stati benissimo con lui, ma io ero terribilmente fuori posto, in realtà.
Lui si immaginava, non so perché, che l’autore della Spia che venne dal freddo fosse sofisticato quanto lui. E questo a volte mi succede ancora: la gente è convinta che io conosca cose di cui non so assolutamente nulla ».
Parliamo degli ultimi libri, ambientati fra i super-ricchi, a base di brutte guerre in Paesi stranieri, di battaglie contro Big Pharma. È evidente che sei orgoglioso di queste opere, e del suo supporto alle forze del bene, per quel che valgono. Il che ci riporta, inevitabilmente, all’enigma di tuo padre.
«Non faccio che scervellarmi per capire quali fossero le sue motivazioni. Mi chiedi che cos’è che lo divertiva. Credo che quello che lo divertiva fossero le grandi truffe che riusciva a mettere a segno».
Questo non faceva di Ronnie un artista, a modo suo?
«È questa la cosa che mi affascina, ovviamente: io sono semplicemente la versione fortunata di mio padre?».
Se è così, siamo noi, i lettori di John le Carré, quelli fortunati.
©John Banville/Guardian News & Media
(Traduzione di Fabio Galimberti)